Sappy

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  • in risposta a: Frances Bean volto di Chanel #20285
    Sappy
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    però ha degli occhi agghiaccianti….bellissimi….

    in risposta a: Hanno “ridetto” su Kurt…. #20320
    Sappy
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    bello…. ico03

    in risposta a: Alcune frasi di Kurt…. #20297
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    bello pure questo!!! ico03 ico03 ico03

    in risposta a: Steve Albini: “Il problema della musica” #20300
    Sappy
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    bene ho deciso…se trovo un 4 piste oppure faccio tutto al pc (che viene meglio) registro tutto io e poi pubblico x i fatti miei…anche se in poche copie ma meglio così che cn quelle case discografiche che ti fregano… ico03

    in risposta a: Steve Albini: “Il problema della musica” #20299
    Sappy
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    azz…a quest punto meglio fare tutto a casa propria poi ci si stampa le copie e poi si vende x se…

    in risposta a: Frances Bean volto di Chanel #20284
    Sappy
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    scusate ma quella vicino a frances è la Love?…se è lei ammazza com’è mangiata dalla droga…cmq frances è bella in carne…eheheh ico03 ico03 ico03

    in risposta a: Rock’n’Death #20305
    Sappy
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    cmq io sapevo che il cantante degli alice in chains era morto di AIDS…

    in risposta a: Rock’n’Death #20304
    Sappy
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    bella questa scaletta…mi dispiace tanto x questi grandi artisti che sono morti…

    in risposta a: RECENSIONI #19226
    Sappy
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    eheh si…cmq speriamo che l’album dei metallica che è in arrivo sia decente…almeno speriamo sia meglio di quel macello di st. anger

    in risposta a: COMPLOTTO MORTE KURT COBAIN #20038
    Sappy
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    guarda il documentario di vojager…

    in risposta a: Maiden England #19913
    Sappy
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    tu c’è l’hai ???…io degli iron maiden ho soltanto il box ed hunter di 3 cd…il singolo di the trooper e il singolo di different world ico03

    in risposta a: Lucarelli e Voyager su Kurt Cobain #19884
    Sappy
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    breve ma bella…

    in risposta a: RECENSIONI #19225
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    belLe eh?…che ne pensi kurt? ico03

    in risposta a: RECENSIONI #19224
    Sappy
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    SONIC YOUTH Daydream Nation

    I newyorkesi Sonic Youth sono fra i gruppi che hanno osato di più nella storia del rock, nonché una delle formazioni più imitate degli ultimi due decenni. Non si contano, ancora oggi, i discepoli della loro “noise wave”, fondata su un chitarrismo atipico, ma ormai inconfondibile, in cui non vi è differenza fra ritmica e solistica, poiché tutto converge in un fluire disarmonico. Con la loro etica nichilista e irriverente, retaggio dell’era punk, con il loro ostentato rifiuto del music-business e del conformismo che lo contraddistingue, sono diventati quasi il prototipo della “indie-band”. Almeno finché una major non si è accorta di loro, gettando la sua “longa manus” sulle loro opere.

    Il gruppo si forma durante la Noise Fest, organizzata nel 1981 al White Columns dal chitarrista Thurston Moore. Oltre a Moore, la band annovera l’altro chitarrista Lee Ranaldo (già nell’entourage di Glenn Branca), la bassista Kim Gordon (ex studentessa d’arte a Los Angeles, nonché compagna di Moore) e il batterista Steve Shelly. I riferimenti musicali dell’ensemble sono principalmente la scena punk più estrema, il garage-rock, qualche elemento di musica industriale e le assordanti sinfonie “avant-garde” di Glenn Branca. Un repertorio messo in mostra già nell’Ep d’esordio, “Sonic Youth” (1982), che segna un punto di contatto tra le musiche che li avevano influenzati.

    L’anno successivo arriva l’album d’esordio “Confusion Is Sex”, rivoluzionario ed estremo. Il successivo “Bad Moon Rising” (1984) si presenta come una lunga suite psichedelica, tesa e dissonante: la singolare fusione di stili fa pensare a un ideale incontro tra Grateful Dead e Velvet Underground. Nel 1985 è il turno di “Evol”, altro ottimo album che fa leva soprattutto su melodie armoniose, lacerate però dalle chitarre scordate e dal canto urlato o appiattito di Moore o della Gordon. “Sister”, uscito l’anno dopo, è un ulteriore passo avanti in quella direzione.

    Ma è nel 1988, con “Daydream Nation” che lo stile dei Sonic Youth si definisce alla perfezione. Squilibrio psichico, apocalisse metropolitana, rumore metallico e percussività insistente convergono in un doppio album “manifesto” che svela l’altra faccia del Sogno Americano (“I wanted to know the exact dimensions of hell”, declama Gordon in tono fatalmente decadente). La rabbia antagonista dei Sonic Youth si consuma in una folle corsa verso il baratro di quella Death Valley decantata agli esordi.

    “Daydream Nation” è un compendio definitivo del chitarrismo della Gioventù Sonica. Lee Ranaldo riproduce ogni tipo di rumore con distorsioni estreme, Thurston Moore lo asseconda e lo completa, mentre Kim Gordon si dedica al sottofondo di basso, onnipresente insieme alla batteria, e poi sfodera la sua voce gelida; e su questo intreccio caotico si staglia una percussività ossessiva, che non dà scampo.

    La distorsione valvolare delle sei corde è il marchio di fabbrica dell’ensemble: rumore al calor bianco, che contribuisce a dipingere affreschi di cupa tensione metropolitana. Ma ogni elemento del sound-Sonic Youth viene portato a compimento, in un processo di maturazione che ha del portentoso. Ogni traccia, infatti, rivela una compattezza sonora senza precedenti e uno sperimentalismo accurato, profondo, ma mai fine a se stesso.

    L’album, dalla inconfondibile copertina “scura” (una candela accesa su sfondo nero), è pervaso da una costante vena satirica. Un intento palese fin dall’inizio, affidato al memorabile riff di “Teen Age Riot”, rock-anthem travolgente, da ko immediato. E’ l’urlo dell’altra America, quella “underground”, che sogna di sottrarsi alla morsa del reaganismo. L’altrettanto torrenziale “Total Trash”, jam acida di reediana memoria, rimanda anch’essa a proteste e slogan. Ogni brano ha un inizio, uno svolgersi e un termine, scorrendo agevolmente senza rinunciare ad alcun tipo di escursione sonora. Il capolavoro “Trilogy” – quasi quattordici minuti di delirio puro – annovera tre momenti, il primo episodio (“Wonder”), serrato, dissonante, dal testo allucinato e sarcastico; il secondo “Hyperstation” è invece immerso in un clima di squilibrio psichico: un’atmosfera orrorifica, sulla quale la chitarra ricama scale pungenti, mentre il finale “Eliminator Jr” è un hardcore distorto e suonato velocissimo.

    Trovano poi spazio nel disco ballate garage-rock come “Eric’s Trip” e “Hey Jony”, o ancora brani psichedelici dall’effetto suggestivamente “straniante”, come “Kissability” e “The Sprawl”, gioielli del canto maliardo di Gordon. “Silver Rocket” e “Rain King”, costruiti su imponenti muri di chitarre e distorsioni assordanti, sono invece affidati alla voce di Moore, mentre in “Candle” la chitarra di Ranaldo si contorce e si arrotola su sé stessa fino all’inverosimile.

    “Daydream Nation” non è solo un classico: è uno spartiacque nella storia del rock. Con i suoi baccanali fragorosi, miracolosamente legati ad armonie pop, segna la nuova frontiera del rumore applicato al formato-canzone. Già, perché sempre di canzoni – seppur d’avanguardia – trattasi, quando si tratta dei Sonic Youth. E se di “noise-rock” oggi si può parlare, il merito è in gran parte loro.

    track list

    Teen Age Riot
    Silver Rocket
    The Sprawl
    ‘Cross The Breeze
    Eric’s Trip
    Total Trash
    Hey Toni
    Providence
    Candle
    Rain King
    Kissability
    Trilogy:
    -The Wonder
    -Hyperstation
    -Eliminator Jr.

    in risposta a: RECENSIONI #19223
    Sappy
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    Metallica
    Master Of Puppets (Elektra 1986)

    Il 1986 verrà ricordato, in ambito musicale, anche –e soprattutto- per la clamorosa esplosione del thrash metal, un genere nato e cresciuto nella Bay Area, costa della California, che univa assieme la precisione chirurgica del primo heavy metal con la rabbia e la velocità dell’hardcore punk. Sebbene già conosciuti negli anni precedenti, grazie ad album di ottima fattura, i maggiori pilastri del genere (Slayer, Venom e Metallica) si consacrarono definitivamente proprio in questi dodici mesi, creando capolavori atti a rimanere, per sempre, nella memoria di ogni musicofilo degno di questa nomea.
    E’ innegabile affermare che “Master Of Puppets” dei Metallica è stato, è e rimarrà un disco epocale. Poco più di cinquanta minuti di storia: ciò basta –e avanza- per proiettare Kirk Hammett (chitarra elettrica), Cliff Burton (basso), James Hetfield (voce e chitarra elettrica) e Lars Ulrich (batteria) nell’albo d’oro degli indimenticabili -e degli indimenticati-. E’ bene sottolineare che, comunque sia, il thrash metal che si può avvertire in quest’opera è sensibilmente diverso da quello dei cugini Slayer e Venom: se i primi prediligevano l’estremismo, con sfuriate brevi, violente ed estremamente veloci, ed i secondi giocavano tutto sopra ad un barocchismo teatrale ed intenso, i Metallica decidevano di scegliere la via più articolata, con pezzi che sovente sforano il tetto dei cinque minuti, grazie ad una spiccata vena compositiva, ricca e fiorente, capace di districarsi nei territori più disparati senza perdere il benché minimo calibro di potenza ed impatto sonoro.
    Ed è quando partono le note dell’opening track “Battery” che si capisce davvero il motivo dell’ingombrante nomea di capolavoro generazionale. Si può già immaginare l’addestrata mano di Hammett che, in preda ad un raptus sconosciuto, fra una strofa e l’altra, mentre Hetfield sputa fuori le sue sentenze di polvere e sangue, mentre Ulrich fa implodere la doppia cassa, mentre un giovanissimo Burton –ignaro della crudeltà che gli riserverà il destino da qui a breve- tartassa le sue sei corde, si muove frenetica sui box di una tastiera infuocata, per cominciare un assolo senza tempo né età, dove lo spazio si distorce, violentato e privato della sua naturale cognizione.
    “Master of puppets, I’m pulling your strings/ Twisting your mind and smashing your dreams/ Blinded by me, you can’t see a thing/ Just call my name, ‘cause I’ll hear you scream/ Master/ Master/ Just call my name, ‘cause I’ll hear you scream/ Master/Master”

    E’ un maledetto giocoforza. E’ uno stupidissimo rapporto fra potente, visto come un burattinaio, e un sottomesso, che si rassegna al suo destino, vomitando acido sul mondo e tutto quanto ne concerne, perché nulla lo può ritrarre dalla condizione in cui versa. Ma è anche una dolce ballata, nella quale il calpestato si apre, come uno scrigno difettoso, al risuonare del morbido assolo di Cliff Burton, cercando comprensione ed appoggio. Mera illusione: con un rumoroso tonfo, un altro assolo, crudo e velocissimo, ne stronca qualsivoglia sentimentalismo sul nascere, per annegare nella sua stessa, retorica amarezza, in una corsa mai iniziata, rimpiangendo la debolezza dell’aiuto richiesto (“Laughter, laughter/ Laughing at my cries/ Fix me”). Ed è solo alla fine, quando il trionfo si completa in maniera irreversibile, che si avverte il potere infinito del burattinaio: una risata grassa, beffarda, sardonica, priva di gioia e profondità, che si spegne sul fondo con un retrogusto amaro. In tre parole, “Master Of Puppets”: un capolavoro imprescindibile del metal.
    Si ha quasi timore a rompere il perfetto meccanismo creato dal binomio d’apertura, con il riff, vagamente Far West, che dà il via a “The Thing That Should Not Be”, composizione dinamitarda in bilico fra attacchi thrash, inserimenti di più classico heavy metal (ecco da dove viene la pluripremiata “Enter Sandman”…), arpeggi cupi e rimbombanti, con un assolo sferragliante, veloce e lacerante, dalle pesanti influenze industrial.
    L’attenzione viene focalizzata sulla successiva “Welcome Home (Sanitarium)”, una sorta di ballad dalla struttura semicircolare, dove il basso di Burton è liberissimo di spaziare fra le scale cromatiche –da ascoltare l’ennesima performance solitaria-, mentre la voce cavernosa di Hetfield tuona, di riff in riff, le (dis)avventure di un soldato al ritorno dalla guerra (più che evidenti gli strascichi polemici post-Vietnam).
    Ma tutta la reale potenza sonora dell’album si concentra in “Disposable Heroes”, una vera e propria carabina dalla violenza eccezionale, capace di essere ruvida ed assassina per oltre otto minuti, grazie ad un Lars Ulrich che, con un ritmo schizofrenico, supporta alla perfezione quello che è l’infernale lavoro delle chitarre, velocissime e sempre in movimento, sia nei riff, sporchi e dissonanti, che negli assoli, acuti ed estremamente tecnici.
    Il solo vero passo falso di “Master Of Puppets” è dato da “Leper Messiah”, pesantissima mazzata di impacciato heavy metal, spesso ripetitivo, che strizza l’occhio agli Anthrax, senza trovare quella freschezza compositiva che si era finora registrata in tutti i pezzi dell’opera. In poche parole: poche idee, troppo riciclo.
    Ma che questo sia tecnicamente un capolavoro, non viene messo in discussione nemmeno per un momento: il cervello si perde nei reconditi meandri dello spazio, ritornato integro e proiettato in una dimensione parallela. Ecco che avviene la magia di “Orion”, una lunghissima strumentale, uno dei tanti marchi di fabbrica della band, probabilmente il migliore brano dell’album, dominata in lungo e in largo dall’enorme genio creativo di Cliff Burton, capace di prendere il comando del timone per poi farlo veleggiare in mezzo a tempeste sonore senza il benché minimo rischio di sbandamento. Ogni suo riff entra di fatto nella leggenda: è solo lui che riesce a sostituire, senza danneggiare l’impalcatura che sorregge la canzone, gli accordi di hard’n’heavy con un blues rock ammaliante ed ipnotizzante, che si distorce infuocato prima in un assolo, poi in una sparata thrash metal da far impallidire qualsiasi complesso con pretese distruttive.
    Ed arriva l’epitaffio finale, “Damage, Inc.”: l’incipit vagamente new age si trasforma, come nel migliore (o peggiore?) incubo, in una sfuriata thrash metal dalle spiccate influenze slayeriane, agile e cacofonica, anche nell’ingombrante assolo –marca Hammett- che lacera fragorosamente i timpani dell’ascoltatore. E tutto si chiude a spirale in un silenzio che vale molto più di mille parole.
    Il resto, purtroppo, è anch’esso storia.
    Il 27 settembre 1986, in Svezia, poco tempo dopo la release di “Master Of Puppets”, il ventiquattrenne Burton perse la vita in un orrendo incidente stradale, schiacciato sotto il pullman che i Metallica usavano per spostarsi nel paese scandinavo.
    Nel 1991 la band californiana diede il completo addio al thrash metal, abbracciando sonorità più morbide e commerciali, con l’uscita dell’omonimo album, detto anche “Black Album” per il colore della copertina. Da allora, una delusione dietro l’altra, sempre più cocente, fino all’indecente “St.Anger” datato 2003.
    Eppure, ascoltando una volta dietro l’altra questo “Master Of Puppets”, ci si chiede come sia possibile che i Four Horsemen siano stati plagiati da MTV in modo così netto e definitivo.

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