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SappyModeratore
x the better: che concerti hai visto in vita tua?…io fin adesso solo i verdena e a breve vedrò subsonica e poi i marlene kuntz ico03
SappyModeratoreahahah….gaia malaaaaaaata….. ico03 ico03 ico03
SappyModeratoreperò simpatica….dai gaia…tua madre è simpatica….forse un pochino insistente però simpatica… ico03 ico03 ico03
SappyModeratoregiorgio gaber= un mito…. ico03
x gaia: ahahahah già….. ico03 ico03 ico03
SappyModeratoreGreen River – Dry As A Bone
Dopo il seminale “Come On Down” Steve Turner se ne và, infastidito dalle pose metal dei compagni Stone Gossard e Jeff Ament, colpevoli di cercare il successo a tutti i costi sacrificando la purezza musicale. Il tempo darà ragione sì a Turner (Jeff e Stone fonderanno i multimilionari Pearl Jam) ma anche torto dato che i Mudhoney (di cui diverrà chitarrista) in pieno periodo d’oro grunge non si fecero scappare l’occasione di firmare per una major e assicurarsi una pensione di tutto rispetto! Oltretutto dopo quel mitico EP, la Homestead cacciò il gruppo (non ci fece una lira) e se li assicurò l’appena nata Sub Pop. Nel giro di 3 anni i nostri riuscirono a scrivere solo 5 canzoni, che finiranno nell’EP “Dry As A Bone”. L’EP forgiò il grunge. Bastava prendere un successivo disco marchiato Sub Pop per capire che tutto deriva da qui. Le chitarre, specialità del produttore Jack Endino (allora negli altrettanto seminali Skin Yard), sono laceranti e toste, mai pompose e belle grezze. Ascoltando le canzoni ci chiediamo cosa potessero avere di metal, ma, allo stesso tempo, non avevano niente di punk. Era una geniale commistione dei due generi, presto chiamato grunge. Se volete sapere la definizione di questo genere cercate tra questi solchi. Bellissima l’iniziale “This Town” e la stoogesiana “Unwind”. Nella ristampa che si trova nei negozi ora sono presenti 3 brani inediti (una alternate version di “Searchin'”, “Ain’t Nothing To Do” dei Dead Boys e “Queen Bitch” di David Bowie) e il primo vero disco della band: “Rehab Doll”. L’esordio “adulto” arriverà dopo lo scioglimento e ha poco a che fare con il sound che aveva la band fino ad allora. La musica si rifà allo street in voga in quel periodo e non regala niente di straordinariamente originale come gli EP pubblicati fino ad allora. Sembra una versione grezza e mal prodotta dei futuri Mother Love Bone. I curiosi troveranno comunque qualche episodio notevole.
SappyModeratoresi potrebbe fare una sezione cn le news riguardanti i nirvana…tipo uscite discografiche, film e roba del genere… ico01
SappyModeratoreho fatto il test…53.57 centro sinistra, 42,86 centro destra… ico15
SappyModeratorecome si fà a fare questo test?…dove si fà?…. ico03
SappyModeratorenn mi piace sinceramente….dovrebbe essere semplice e spontaneo…come i nirvana ico03
SappyModeratoreguarda la mia recensione sui TAD nella sezione recensioni…
SappyModeratoregrandi…li conosco da circa un paio di anni…cmq ti consiglio i TAD, dei grandi….ascoltali sono dei mostri(nel vero senso della parola)… ico03
SappyModeratoretroppo chiaro è il colore…
SappyModeratorepensate che dopo l’uscita del loro ultimo EP lui nn era in grado di sostenere un’intervista che superava un minuto…era completamente dipendente dall’eroina…era un pezzò di carne inbottito di eroina…
SappyModeratoreWHITE STRIPES – Get Behind Me Satan
Jack “Il Bianco” non riesce proprio a stare fermo. Insieme a sua sorella/ex-moglie (non è, poi, così importante) Meg, ha riportato a Detroit lo spirito minimalista e selvaggio di gruppi come Stooges e MC5. Con una semplice e basilare chitarra, una batteria e due microfoni, i White Stripes hanno ritrovato il vecchio, primordiale, irruente spirito del blues suonato a tutto volume.
Dai riff hendrixiani di “White Stripes” (1999) al roots/hard-rock di “White Blood Cells” (2001), fino al botto commerciale di ” Elephant ” (2003), il duo americano compie un percorso musicale che lo avvicina sempre di più a uno stralunato e martellante incrocio tra Led Zeppelin e John Spencer Blues Explosion.A questo punto, i White Stripes hanno trovato la formula vincente: ottenere un grande successo commerciale pur non piegandosi alle leggi radiofoniche, mantenendo, insomma, la loro coerenza artistica e musicale. Jack “Il Bianco” potrebbe dormire sogni tranquilli e vivere di rendita con il suo inconfondibile garage-rock, ultimamente anche prestato alle pulsazioni del dancefloor. Sarebbe, tuttavia, piuttosto triste essere condannati a un’eterna ripetizione di “Seven Nation Army” e “The Hardest Button To Button” e, questo, Jack “Il Bianco”, per fortuna, lo sa.
Tra un paio di film e una scazzottata, giusto un paio di settimane bastano per registrare il nuovo disco: “Get Behind Me Satan”. Ed è proprio un bel titolo, visto che il demonio tentatore del successo facile è stato prontamente sconfitto a colpi di chitarra elettrica.
Certo, bisogna andare al di là del singolo che ha accompagnato il disco. “Blue Orchid”, infatti, sembra una nuova “Seven Nation Army”, leggermente gasata da tonalità dance manco l’avessero prodotta gli Scissor Sisters. Meg picchia con la sua batteria martellante, mentre il falsetto alla Robert Plant di Jack accompagna i pochi, elementari accordi di chitarra. Per carità, davvero una bella canzone, ma già starete pensando a questo disco come a un altro minestrone scaldato.Invece, basta ascoltare il delirio psichedelico di “The Nurse” per capire che, questa volta, i White Stripes hanno cambiato registro. Stralunata filastrocca che sembra uscita da un film noir in bianco e nero, “The Nurse” decolla grazie a una marimba stralunata e una batteria al limite del sintetico.
Sembra strano, ma è vero: Jack “Il Bianco” si è stufato dei riff ossessivi della sua chitarra rossa e bianca e, adesso, preferisce un piano ubriaco che sembra stato direttamente fregato a Tom Waits.Capisaldi di questo nuovo percorso sonoro, che amplia notevolmente il repertorio cui la creatura di Jack White ci aveva finora abituato fornendo la prova definitiva del suo talento, sono lo stuzzicante incedere di “My Doorbell”, che sembra uscita da un moderno “Physical Graffiti” imbevuto d’acido lisergico, con il suo formidabile numero di piano e una melodia irresistibile, e la ballata agrodolce “Forever For Her (Is Over For Me)”, ricordo aggiornato del Neil Young anni Settanta. I White Stripes giocano a tamburello tra passato e moderno con una gradevolissima dose di ironia, come dimostra la bizzarria da saloon di “I’m Lonely (But I Ain’t That Lonely)”.
Ovviamente, la matrice originaria del blues è sempre dietro l’angolo. “Red Rain” torna (peraltro con grande incisività) a esplorare il lato più doloroso della “musica del diavolo”, mentre “Instinct Blues” parla da sola, semplicemente con il suo titolo.
Tuttavia, il cuore di “Get Behind Me Satan” è decisamente allegro e scanzonato. Se lui si diverte a torturare il pianoforte, lei abbandona per un po’ la sua batteria minimale e ossessiva alla Moe Tucker (eccezion fatta per la trascinante “The Denial Twist”) per esplorare sonorità latine a ritmo di percussioni, congas e maracas. Pare, quindi, che i White Stripes si stiano divertendo da morire, alla faccia di chi parlava di gruppo seminale e di nuova sensazione rock.
“Litte Ghost” è una stupida filastrocca con la chitarra che sembra un piccolo ukulele (l’esperienza di Jack con Loretta Lynn insegna) mentre “Take, Take, Take” suona come una session perduta dei T.Rex.Blue Orchid
The Nurse
My Doorbell
Forever For Her (Is Over For Me)
Little Ghost
The Denial Twist
White Moon
Instinct Blues
Passive Manipulation
Take, Take, Take
As Ugly As I Seem
Red Rain
I’m Lonely (But I Ain’t That Lonely Yet) ico03SappyModeratoreTAD – Salt Lick
Se siete fra quelle persone che considerano la copertina di un album come una sorta di biglietto da visita dei suoi contenuti sonori, allora qui c’è pane per i vostri denti: si, perché una monster truck che avanza a tutta velocità verso di voi certamente non presagisce un impatto nè leggero, né di facile metabolizzazione… Ci tengono a giocare a carte scoperte i TAD, formazione di Seattle dei tardi anni ottanta, con questo loro secondo EP, edito dalla allora fervida Sub Pop e prodotto dal guru Steve Albini, ormai celebre su più fronti. Sei canzoni soltanto per sottolineare pubblicamente e consacrare al mondo il loro ingombrante approccio alla materia sonora, che li sprona a rifuggere a testa bassa le caratterizzazioni più scontate del nuovo rock statunitense allora in decollo a livello planetario e a porsi, al pari di pochi altri complessi del periodo (penso ai Melvins), al limite della scena stessa. Tad Doyle, il possente ex-macellaio da cui il gruppo prende il nome, butta sul fuoco più carne che può (nel vero senso della parola!), concludendo con questo “Salt Lick” il periodo più duro e puro dei TAD, la cui evoluzione definitiva comincerà col successivo 8 Way Santa. “Axe to Grind”, col battere ossessivo del suo riff portante e quella struttura inusuale ma ancor di più “High on the Hog”, completa di una strofa ai limiti del burlesco che si sposa ben presto con un ritornello granitico, tracciano il percorso scelto dai quattro per assaltare al meglio l’ascoltatore, prendendolo alla sprovvista. Da qui un avvicendarsi di colpi bassi fino al calar del sipario: canzoni tirate e urlate in faccia senza il minimo rispetto, senza il più elementare fronzolo ornamentale, all’insegna di un’immediatezza espressiva che è e sarà sempre marchio di fabbrica del signor Doyle. E cosa importa se tale ortodossia estremista porterà a scarsi risultati sul piano delle vendite e a continui conflitti con le varie etichette chiamate in causa di volta in volta? (Si faranno pure licenziare da una major!). A loro di certo nulla. A noi ascoltatori invece farà piacere assaporare la “fresca” ventata “birra e sudore” del loro acre e tonante rock ‘n roll, come altrettanto facile sarà renderci conto che la strada battuta dai TAD in questo EP è inequivocabilmente senza ritorno: tanto irta di rumore quanto vuota di elasticità (si ascolti il lato B). La mancanza di respiro è la principale spina nel fianco del gruppo al punto che nemmeno il presunto cavallo di battaglia “Loser” (edita a 45 giri con una delle creazioni più pregevoli del quartetto, “Cooking with Gas”), che per definizione dovrebbe rappresentare il loro lato più “orecchiabile”, riesce a scrollarsi di dosso questo pesante fardello. In definitiva “Salt Lick” è questo e non lo si può di certo cambiare, discorso che calza a pennello anche ai suoi autori: integrità e riluttanza a scendere a patti con chiunque. Del resto il leccare sale può risultare non esattamente piacevole ma, come per ogni esperienza particolare che si rispetti, sconsigliarlo a priori suonerebbe come una colpevole sciocchezza.
TRACKLIST:
1. Axe to Grind
2. High on the Hog
3. Loser
4. Hibernation
5. Glue Machine
6. Potlatch -
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