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  • #19266
    ENDLESS
    Partecipante
    #19267
    ENDLESS
    Partecipante

    Allora Kurt,ti piace la mia recensione??? ico03 ico03 ico03 ico03

    #19163
    Kurt74
    Amministratore del forum

    ben fatta e con la scelta di un ottimo album

    #19204
    cech84
    Partecipante

    cavoli ma siete tutti in gambissima con le recensioni…mi sento fuori luogo quando metto le mie 2, 3 che scrivo ogni tanto… ico04

    #19129
    Anonimo
    Ospite

    ENDLESS – 22/3/2008 10:39 AM

    Yes – Fragile (1971)

    Ho comprato quest’album dopo aver letto la tua recensione, Endless. Grazie della dritta, ho preso un disco spettacolare! L’ultima traccia, hai ragione, è un capolavoro, ma ti dirò che dopo averla ascoltata la prima volta son rimasta un pò sgomenta! Sembrano davvero tanti pezzi diversi assemblati assieme. Grazie ancora un milione ico03

    #19268
    ENDLESS
    Partecipante

    Grande!!!Però la recensione è scritta malissimo.Dato ke l’ho fatta una mattina appena sveglio nn avevo ancora tutte le funzioni vitali al 100% quindi sembra ke l’abbia scrita un bambino di 1 elementare ico03 ico03
    Cmq ottimo acquisto ico02

    #19269
    ENDLESS
    Partecipante

    Motorpsycho – Little Lucid Moments (2008)

    Un’incredibile avventura ogni disco dei norvegesi Motorpsycho, una discesa e poi una salita a rotta di collo verso uno spazio dove l’aria è più ricca, dove il mare di febbraio brilla sull’Artico, dove le perturbazioni fredde del nord del mondo e il quelle calde della California dei Byrds di “Fifth Dimension” si scontrano creando un conflitto creativo che fa gocciolare diamanti. Questa volta grossi come pugni. I Koh-I-Noor del dodicesimo album del trio (ancora una volta prodotto da Helge “Deathprod” Sten) questa volta infatti sono quattro, quattro lunghi brani per un’ora di sogno psichedelico, di pura aggressione sonica. C’è sempre e più che mai il suono di Trondheim, quello che li ha resi famosi ai tempi di “Demon Box”, quello che sembrava essere stato compresso nelle ultime prove (in particolare in “Phanerothyme”), quell’assalto eroico, melodico e pieno di respiro che li fa amare e che dal vivo si trasforma in un tornado. Bent Sæther e Snah Ryan arrivano da quegli anni Novanta di lotta furiosa su energia e volumi che ha visto formazioni come Helmet e Melvins, Orange 9mm imporsi anche al di fuori dell’alveo indie; ma da “Let Them Eat Cake” hanno iniziato a guardare con attenzione e reverenza* ai Pink Floyd di “A Saucerful Of Secrets” e ai Jefferson Airplane di “Surrealistic Pillow”, riconciliando i fan del rock alternativo con grandi classici sovente ostracizzati. Punto di forza di questo album il nuovo batterista Kenneth Kapstadt, già osservato nella tournée di “Black Hole/Blank Canvas”, sostituto del dimissionario Håkon Gebhardt, e, come dimostrato nel cuneo improvvisativo di “Little Lucid Moments – III) Hallucifuge (Hyperrealisticly Speaking)”, molto vicino all’arte percussiva di Mitch Mitchell. Chi ancora sente la nostalgia dei Motorpsycho di “Lobotomizer” troverà un rifugio sicuro nell’ipnotico riff degli ultimi sei minuti di “The Alchemyst”.
    Per fan di: Mars Volta, Grateful Dead, MC5

    #19270
    ENDLESS
    Partecipante

    The Piper at the Gates of Down – Pink Floyd (1967)

    1967.Negli studi di Abbey Road i Beatles stanno registrando il loro capolavoro:Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band.
    1967.Negli studi di Abbey Road un gruppo emergente di nome Pink Floyd sta registrando il loro primo disco:The Piper At The Gates Of Dawn.
    Le coincidenze sono molte,sembra quasi scritto che quell’album di quella band emergente nn sarebbe stato un normale album di una band emergente.
    I Pink Floyd erano una delle band di spicco dell’underground inglese,con degli ottimi componenti,primo su tutti Syd Barret.
    Siamo in piena “era LSD”e Syd sembra un normale hippie inglese con la passione per la musica e soprattutto con la passione per le astronavi.Questa passione verrà messa in luce in Piper At The Gates Of Dawn.L’album infatti è un raro esempio di Space Rock,dove i suoni psichedelici si fondono con rumori di astronavi,e altri suoni”spaziali”.
    Guarda caso l’album inizia con Astronomy Domine.La canzone inizia con la voce di un astronauta che canta allegramente(e oscuramente)una stranissima canzone,ed io nn ho ancora capito se è un melodia messi li apposta,o è una canzone esistente( ico15 )
    Comunque,dopo l’allegro astronauta canterino il basso di Waters comincia ad entrare nelle nostre orecchie,accompagnato da strani rumori,per farmi capire,quelli che si sentono nei film di fantascienza quando sta un’astronave subisce un incidente.”Houston abbiamo un problema…Syd Barret è un genio ico03 .Vabbè ma si sapeva.
    La canzone sembra un misto fra Beatles e Caravan,con accenni qua e la di suoni psichedelici tipicamente Floydiani.
    La seconda traccia dell’album è Lucifer Sam.E’una sorta di “Blues Psychedelic Hard Rock”(chissà se esiste questo genere).
    Il basso di Waters crea la melodia ideale per entrare in un bar dell’Arizona e lanciare occhiate di sfida alle persone ke giocano a carte,mentre i rumori “Space”in sottofondo ci fanno ricordare che questo è un’album dei Pink Floyd.Per questo brano vale lo stesso discorso di Astronomy Domine.Per quanto può sembrare strano c’è una forte presenza di atmosfere tipicamente Beatlesiane,amalgamate sapientemente.Non dimentichiamoci che quest’album è stato registrato agli Abbey Road Studio nel 1967.
    Dopo le suggestive atmosfere “Western”Psichedeliche e Beatlesiane passiamo ad un’altro grande brano:Matilda Mother.
    Inizia con un un Melltron che rende l’atmosfera fantastca,surreale,poi Barret comincia a cantare lentamente,siamo completamente rilassati,in sottofondo sempre quel dolce quanto inquietante Mellotron ci accompagna in questo viaggio,dove per un secondo si abbandonano i rumori delle astronavi.
    Difficile dimenticare questo brano,ma i Pink Floyd riescono a farci scordare la dolcezza di Matilda Mother con un altro capolavoro:Flaming.
    La canzone nn promette bene.Barret sembra voglia compensare la mancanza di rumori nel brano precedente,infatti ci sono una miriade di rumori strani,poi Barret inroppe nella canzone e comincia a cantare e,a un certo punto…la canzone perde quel tono “pauroso”e diventa un’allegra e depressa canzone Acid Rock,abbastanza simile a Tomorrow Never Knows dei Beatles.Ancora questi Beatles?!Si ancora loro ico08
    La parte centrale di Flaming è costituita da rumori di ogni genere,per poi finire nella maniera più dolce e spensierata che ci sia.
    Ok,dopo Flaming ci aspettiamo di tutto,e infatti 5/11 Pow R. Toc H è propio quello ci aspettavamo.
    Sembra quasi una canzone dei Residents,solo che questo nn è “stupido Avant Gard”è qualcosa di più.
    Canzone strumentale fatta di rumori oscuri(alla Residents appunto)e di quello Space Rock che un po ci ha stufato.
    Allora i Pink per nn farci stufare mettono alla fine qualcosa che è l’aoteosi della psichedelia.Quelle urla sovraincise che sembrano messe per farci capire quello ke si sente quando si fa un viaggo in LSD ico14
    Il pezzo successivo,Take Up Thy Stethoscope And Walk,è una canzone davvero assurda.Scritta da Waters,in questo brano si ripete incessantemente la parola “doctor doctor”.In compenso però la pate finale viene “alleggerita”e la canzone sembra diventare un brano Beat.
    Siamo arrivati.Il capolavoro di Barret,e una delle canzone più belle dei Pink Floyd.Interstellar Overdrive.
    Ritmo frenetico ed ossessivo,qualsiasi tipo di rumore provenga dagli strumenti è ben accetto.E’davvero difficile descrivere questa canzone,perciò:

    Non del tutto ripresi da Interstellar Overdrive arriamo così a The Gnome,canzone tanto piccola quanto epica.
    Il testo è davvero spettacolare,ai limiti del No-Sense e della Psichedelia più assurda,in soli 2:13 minuti riesce a portarci in un mondo popolato da gnomi,e ci racconta la storia di uno di loro ico03.
    Ormai però dobbiamo realmente aspettarci di tutto da quest’album e Chapter 24 ne è la prova.
    Un’oscura canzone dai ritmi orientali ci accompagna verso le ultime traccie dell’album.
    Nacchere e voce in trip sono gli elementi di The Scarecrow,che sembra quasi anticipare l’ultima canzone.E ormai,lo ripeto quasi ossessivamente,da questo disco dobbiamo aspettarci di tutto,e infatti…TRIN TRIN!!
    Il suoni di un campanello di una bicicletta ci risveglia,el’aasurda melodia di Bike entra piano piano nella nostra testa e nel nostro cuore.
    I Pink però voglione chiudere in grande stile quest’album e per farlo trasformano la parte finale di Bike in assurdo e terrificante teatro dei rumori.Gli ultimi singolari suoni sembrano il pianto ossessivo di un bimbo.La canzone sfuma.Il disco è finito.
    1967.I Beatles entrano nell’olimpo della musica grazie a Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band.
    1967.I Pink Floyd bussano alle porte dell’olimpo della musica grazie a The Piper At The Gates Of Dawn.

    #19271
    ENDLESS
    Partecipante

    Allora Kurt,ti piace questa recensione??

    #19164
    Kurt74
    Amministratore del forum

    bellissima, ho inserito il video.
    ottima recensione

    #19240
    Sappy
    Moderatore

    R.I.P. SYD

    #19272
    ENDLESS
    Partecipante

    Close to the Edge – Yes (1973)

    Il 1973 per il progressive rock fu probabilmente il momento di massimo splendore, durante il quale molti dei gruppi di riferimento del genere raggiunsero i loro vertici espressivi.
    Gli Yes non fecero eccezione: grazie alla spinta del poderoso volano “Fragile”, composto l’anno precedente e salito fino al quarto posto della classifica inglese, si accinsero a comporre quella che sarà la loro opera migliore, la più poderosa e caratterizzata dal giusto equilibrio tra l’arrangiamento estremo, definitivamente la peculiarità di questa band, e la giusta dose di visionaria suggestione.
    Purtroppo questo delicato compromesso tra sfoggio tecnico, dilatazione esecutiva e follia compositiva non ha retto, derivando la band in un primo momento verso l’enormità di “Tales from the Topographic Ocean” (quattro LP di smisurata vastità sonora) e successivamente verso la follia di “Relayer”, i quali pur risultando ancora notevolissimi come sforzo di song-writing fanno dell’estremismo il loro punto di forza risultando meno accattivanti.
    “Close to the Edge”, viceversa, è un disco di equilibrio. Proprio per questa ragione il batterista Bill Bruford vede questa release, e soprattutto la title-track, come la sua massima espressione di batterista rock di stampo “convenzionale”: il suo arrangiamento è semplicemente perfetto per la natura rock sinfonica dell’opera. Come si era già notato nel precedente “Fragile”, Bruford non è mai stato un musicista legato ad una qualche tradizione, a degli schemi prescritti: ha sempre cercato nuove direzioni, una reale progressione della visione tradizionale della batteria. Non uno strumento prettamente ritmico, ma un qualcosa di più libero e vario, indipendente.
    Quì ha potuto finalmente dare sfogo a tutti gli arrangiamenti possibili in un contesto rigido di composizione, producendo una sorta di brano parallelo in cui talvolta dare riferimenti, e talvolta proporre sonorità più solistiche e abbellimenti. Ce n’è davvero per tutti i gusti, è assolutamente un’opera di incastramento continuo e programmatico: è bellissimo osservare tutti gli accenti meccanici e cadenzati del basso di Squire, sempre precissismo e potente nello slegarsi da Bruford e riabbracciarlo quando preferisce, disorientando l’ascoltatore senza perdere un briciolo del groove. Ed è impossibile descrivere a parole i quintali di vernice coi quali Steve Howe pennella e tinteggia ogni brano, passeggiando in lungo e in largo sulla tastiera della sua chitarra con una fantasia e una libertà ineguagliabili: tra lui e l’estroso, devastante, maestoso, definitivamente ineguagliato Rick Wakeman c’è di che rifarsi le orecchie perpetuamente, a vita.
    Gli Yes sono sempre stati, almeno finchè si proponevano come artisti progressive rock di stampo tradizionale, una fonte inesauribile di creatività e armonia. Con trenta secondi di ogni loro brano si fornirebbero idee per interi dischi di musica più sempliciotta, ed è una cosa, a mio avviso, che merita il massimo rispetto. Naturalmente, è vero, l’eccesso arrangiativo valica le possibilità umane più benevolenti, ma non è assolutamente il caso di “Close to the Edge”. Un brano come “And You and I” è di una eleganza assoluta, per nulla ridondante, e i suoi dieci minuti passano con scioltezza: togliere anche solo una nota equivale a smontare un capolavoro curato nel minimo dettaglio, arrangiato con classe ed emozionante in ogni suo istante.
    Ma, com’è ovvio, la parte più eccezionale di questa release è il brano che da il titolo al disco. Difficile da rendere a parole, così come è difficile parlare delle parole stesse! La sensazione, a mio avviso, è un mezzo delirio da funghettizzazione creativa… probabilmente Jon Anderson ha creato un testo molto evocativo come immagini e al tempo stesso ritmicamente adeguato al contesto in cui doveva calarsi: un brano mostruoso, in cui è facile perdersi, e in cui ogni strumento è esaltato al massimo delle sue possibilità espressive, prossimo, appunto, al suo “limite”. Dall’inizio vagamente etereo e rurale, tra cascate in lontananza e uccellini cinguettanti si finisce al jazz rock più tirato ed estremo, passando nel frattempo attraverso ogni ordine di suoni, compresa una sezione centrale vagamente neoclassica e perfino futuristica, grazie all’uso geniale del Moog da parte di Wakeman. La voce di Anderson, altissima e leggera, si adatta perfettamente al ‘mood’ sognante del brano, plasmandosi melodicamente e metricamente lungo tutti i venti minuti che lo compongono. Forse a qualcuno potrà non piacere per via della sua indubbia impalpabilità e del timbro a volte un po’ fiacco, ma le linee vocali, di squisita fattura, si stampano direttamente nell’animo e non le scalzerete finché avrete vita.

    Un brano esemplare per un disco di valore enorme, in cui scoverete chicche ovunque, specialmente se siete musicisti.
    Un prodotto caratterizzato da idee a profusione e un bellissimo artwork ad opera di Roger Dean, che meglio non poteva ricreare su carta il sound visionario e suggestivo della formazione inglese.

    Forse il disco migliore degli Yes; sicuramente uno dei migliori del prog rock tutto….

    …….scusate se ho fatto copia incolla ico07

    #19273
    ENDLESS
    Partecipante

    Loveless – My Bloody Valentine (1991)

    E’ il 1991, e gli Irlandesi My Bloody Valentine danno alle stampe il loro secondo album.Loveless. I MBV hanno publcato un’infinità di Demo e di LP, e solo nel 1988 riescono a publicare il loro primo album:Isn’t Anything.
    La musica dei My Bloody Valentine è strana, ma strana forte. Dalla chitarra provengono un’infinità di rumori, al limite tra Noise Rock e vera e propia cacofonia, mentre la voce(stupenda) crea una melodia, una melodia stupenda al limite tra Psichedelia e Art Rock.
    Questa musica strana ha un nome, viene chiamata Shoegaze, ed un sottogenere nato nell’Underground del Regno Unito verso la fine degli Anni 80 e finito nel 1991. Si, propio il 1991, l’anno in qui i My Bloody Valentine publicano il loro capolavoro…o meglio il capolavoro dello Shoegaze e di tutti gli anni 90. Davvero un’opera d’arte.
    Il dico inizia con Only Shallow. E’ la traccia perfetta per cominciare. Chitarre quasi “stonate”e la voce di Bilinda Butcher che fa sognare. E’ sicuramente una delle canzone più facili all’ascolto, e meno cacofoniche.
    La secondo canzone è Loomer.TERRIFICANTE.Estrema.Bellissima. Devo essere sincero. La prima volta che ho ascoltato questa canzone sono rimasto basito. Credevo stessero suonando dei bambini, ma poi ascoltandola più volte la melodia creata dalla Butcher e tutti quei rumori mi sono entrati nel crervello.
    Ok. La terza traccia, Touced solo ad introdurci la canzone seguente…
    Siamo arrivati. To Here Knows When è il capolavoro nel capolavoro. Una canzone mozzafiato, qui si esprime al massimo il concetto di “Shoegazing”. Solo rumore provienienta dalla chitarra di Kevin Shields, la voce di Bilinda crea la melodia perfetta, una melodia che può prendere il posto della camomilla. La voce però si sente a stento, dato che la montagna che è schiacciata dalla montagna di rumore.
    Il resto delle canzoni sono minori rispetto alle prime 4, apparte Sometimes che è una delle canzoni più belle del disco, dove la chitarra acustica di Kevin Shields fa da accompagnamento ai classici suoni Noise che contraddistunguono tutto l’album.
    Consiglio davvero a tutti di ascoltare questa perla, ultimo album di questo fenomeno puramente Underground e riconosciuto universalmente come IL MIGLIORE di tutto il genere.

    #19274
    ENDLESS
    Partecipante

    To Here Knows When :

    #19275
    ENDLESS
    Partecipante

    Kurt a te non piacciono vero? Ascolta l’album però, probabilmente cambi idea ico02

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