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  • #19215
    VERSE CHORUS VERSE
    Partecipante

    AFTERHOURS – QUELLO CHE NN C’è

    Quello che non c’è” è il disco di un gruppo e di un artista, Manuel Agnelli, che cerca di (ri)trovare formule nuove e un rapporto differente con la musica da suonare e con il successo raggiunto e meritato grazie a dischi splendidi come “Germi” e “Hai paura del buio?”, e un altro forse sottovalutato come “Non è per sempre”; la separazione da Xabier Iriondo (d’altronde occupatissimo con i suoi A short apnea e Six minute war madness) ne è allo stesso tempo una conseguenza e ancor di più un fattore scatenante, Manuel Agnelli con tutta probabilità vuol riassaporare il gusto di suonare senza dover dimostrare niente e senza il peso di un capolavoro come “Hai paura del buio?” alle spalle, o del pop cantato da tutta la platea di tanti fortunatissimi concerti. Questo ce lo dice non solo l’ascolto di “Quello che non c’è” ma ci viene confermato dal fatto che gli autori dei brani per la prima volta sono, in 7 brani su 9, tutti i componenti del gruppo, a dimostrazione di una volontà di trovare un’ispirazione dal suonare insieme e di una ricerca di unità umana oltre che artistica.

    L’interrogativo è se gli Afterhours siano ancora in grado di dare molto al rock italiano, tenendo presente che parliamo di un gruppo sulla scena da tanti anni; l’impressione è che il gruppo stia cercando di coniugare gli stilemi che hanno fatto la fortuna del gruppo, e che sono ancora in grado di dare buoni risultati, con qualcosa di nuovo che però deve ancora essere ben definito. Il risultato infatti è un album con delle differenze rispetto ai precedenti, con dei pezzi più lunghi e atmosfere più pschedeliche e ossessive, anche se non mancano dei riferimenti classici per il gruppo, una ricerca melodica mai accantonata e l’uso di elettronica esclusivamente analogica.

    Gli elementi di novità nella struttura dei brani danno risultati alterni, se nel brano di apertura “Quello che non c’è”, un classico brano sofferto nello stile di “Pelle” per intenderci, la digressione strumentale finale sembra un po’ inconcludente, è riuscitissima invece in “Bye bye Bombay” e “Bungee jumping” dove le progressioni strumentali creano un’atmosfera psichedelica e ammaliante. Un altro episodio inconsueto è sicuramente “Ritorno a casa”, un pezzo “parlato” alla maniera dei loro colleghi e amici Massimo Volume, con un testo autobiografico di Agnelli forse un po’ stucchevole, anche se l’immagine del soldatino proteso ad un segnale di attacco che non arriva mai è crudele e bellissima. Altri pezzi rimarchevoli sono il singolo “Sulle labbra” e la semplice ma efficace ballata triste “La gente sta male”, mentre deludono un po’ la potente “Non sono immaginario”, copia sbiadita di precedenti episodi power-pop dei nostri, e “Varanasi baby” che probabilmente poteva essere sviluppata meglio (dal vivo viene eseguita in maniera più dilatata e potente).

    I testi di Manuel Agnelli, che spesso hanno lasciato il segno, qui confermano quanto detto riguardo alla ricerca musicale, la rabbia e il risentimento del passato lascia un po’ più di spazio alla malinconia, segno di una continuità con quello espresso musicalmente, e il tono di voce utilizzato è più raccolto e sofferto che rabbioso o sarcastico come nelle precedenti opere.

    #19120
    Anonimo
    Ospite

    Led Zeppelin – Led Zeppelin II

    (Atlantic records – Gennaio/Agosto 1969 – Olympic Studios, London – Produced by Peter Grant and Jimmy Page)

    Formazione:
    Robert Plant – voce
    Jimmy Page – chitarra
    John Paul Jones – basso
    John Bonham – batteria

    Tracce:
    1) Whole lotta love (Led Zeppelin)
    2) What is and what should never be (J. Page – R. Plant)
    3) The lemon song (Led Zeppelin)
    4) Thank you (J. Page – R. Plant)
    5)Heartbreaker (Led Zeppelin)
    6) Living loving maid (She’s just a woman) (J. Page – R. Plant)
    7) Ramble on (J. Page – R. Plant)
    8) Moby Dick (J. Bonham – J. P. Jones – J. Page)
    9) Bring it on home (J. Page – R. Plant)

    Secondo album della band inglese, Led Zeppelin II è da molti considerato il miglior disco della band (personalmente annovero tra i migliori tutti gli album del primo periodo). Continua l’evoluzione che va dal blues al blues-rock, sebbene, a differenza del loro primo lavoro, inizino a sentirsi meglio definite le personalità dei singoli musicisti (citerei a questo proposito “Moby Dick”).
    Primo brano, basta l’intro perchè chiunque si ricordi di averlo ascoltato almento una volta… caratterizzato dalla fase centrale, strumentale, quasi psichedelica e memorabile per i famosissimi gridolini made in Robert Plant!
    Il secondo brano è… dolce all’inizio, morbido, culla l’ascoltatore fino al cambiamento del ritmo che dà una bella sferzata alla traccia.
    Terza traccia… l’allusione del titolo (e non solo del titolo) è abbastanza palese, è una cover adattata (come tipico del modus zeppeliniano) di Killing Floor degli Howlin’ Floor.
    Thank you, pezzo di snodo dell’album, si svolge tra le tastiere di John Paul Jones e la dodici corde di Jimmy Page. Dopodiché si torna velocemente verso il blues e… il resto è storia!!

    Asoltatelo ascoltatelo ascoltatelo

    “… And if I say to you tomorrow: “take my hand child, come with me, it’s to a castle a will take you…”

    #19157
    Kurt74
    Amministratore del forum

    Anorexorcist – 7/12/2007 10:28 PM

    Led Zeppelin – Led Zeppelin I
    Primo album del quartetto britannico, darà il via alla numerazione in ordine progressivo dei primi quattro lavori

    Per la precisione il quarto album e’ uscito senza titolo ico01

    #19216
    Sappy
    Moderatore

    ALICE IN CHAINS – Jar Of Flies

    Arriva per tutti i gruppi il momento di mettersi alla prova, il momento di fare una scommessa con se stessi, cercando di esplorare nuove mete e nuove soluzioni (a volte diametricalmente opposte rispetto alle originarie). Questo momento arrivò anche per gli Alice In Chains, nel settembre del 1994. Arrivò soprattutto quando il gruppo era in una situazione molto difficile, dovuta alla dipendenza del leader Layne Staley dalle droghe, che si faceva sempre più marcata. E’ proprio in questo periodo che essa raggiunge il culmine, andandosi a riflettere sulla produzione del gruppo.

    Proprio nel 1994, quando tutta la scena mondiale era ancora in lutto per la gravissima perdita di Kurt Cobain, gli Alice In Chains escono sul mercato con Jar Of Flies, un EP acustico di pregevole fattura. E’ proprio con questa scelta così azzardata che si percepisce l’intenzione del gruppo: portare un po’ di pace, armonia e tranquillità in un mondo, quello rock, così sconvolto e provato. Jar Of Flies rappresenta l’altra faccia degli Alice In Chains: mette da parte il muro sonoro delle distorsioni lasciando spazio alla grazia e alla leggerezza delle chitarre acustiche. Inoltre fu il primo EP della storia ad esordire nelle charts statunitensi al primo posto.

    Il disco si apre con Rotten Apple, un ottima canzone dai toni blueseggianti, sulla quale si posa la sgraziata e sofferta voce di Staley. Tutto ciò a creare un perfetto connubio di intensità e sentimento, impreziosito da un ottima prestazione ritmica di Sean Kinney. Fin dalla prima traccia si può notare il tipo di arrangiamento che poi sarà presente in tutto il resto dell’album, incentrato sulla delicata acustica di Cantrell.
    Nutshell, tanto bella quanto maledetta, è la seconda canzone del disco. Qui il grado di sofferenza si alza non poco, aumentando l’atmosfera trasognata già palpabile. Dal punto di vista strumentale è una canzone molto semplice, strutturata su pochi accordi, che lascia spazio all’ugola di Staley che raggiunge picchi emotivi non indifferenti. Si procede con I Stay Away, vagamente più movimentata delle precendente, ma non per questo meno sofferta. In questa canzone fanno il loro ingresso archi e violini, aumentando di molto il grado di alienazione generale, portato al massimo. Il primo singolo dell’album, ovvero No Excuses si presenta come quarta song del disco. Si tratta di un pezzo dai sapori country marcatissimi, nel quale ogni componente da il meglio di se, con una nota di merito alla parte di basso di Starr e all’insuperabile prestazione canora di Staley. Proprio in questa canzone le parti vocali sono curate, oltre che dallo stesso Staley, da Cantrell (autore di un fantastico assolo successivamente).
    Si arriva poi ad una canzone strumentale, Whale & Wasp. Si tratta di un pezzo di indubbio gusto, nel quale la chitarra elettrica sembra quasi gridare su un tappeto di acustica e di archi, disegnando quadri e paesaggi soltanto grazie a poche note collocate al punto giusto di un arpeggio.
    La seguente Don’t Follow si apre con una delicata acustica, sulla quale Staley tesse una meravigliosa ballata dalle soavi sfumature country, dotata di un bellissimo testo. La canzone sale di intensità e di ritmo successivamente, per poi attenuarsi nuovamente, in un finale da lacrime.
    Swing On This si apre con un efficace intro di batteria, sul quale si costituisce il giro che forma la canzone (forse la più dura del disco, quella con la componente acida più marcata). Fondamentalmente si tratta del pezzo meno bello dell’album, ma comunque dotato di un buon groove e di una buona base ritmica. Ancora una volta la solita ottima prestazione vocale.

    E così finisce il viaggio iniziato con Rotten Apple, un viaggio intimista e sentito, tessuto dall’ugola di un angelo decaduto e dalle soavi note di strumenti particolarmente ispirati. Un viaggio acustico, costellato di emotività e di alienazione. Dimenticatevi le sonorità Heavy Rock dei primi dischi per tuffarvi in questa esperienza totalmente diversa, che non vi deluderà nemmeno per un istante.
    La voce straziante di Staley, intrisa di dolore e di rassegnazione, dipinge su una tela vuota il percorso che da lì a poco avrà inizio.

    LINE UP:
    – Layne Staley – Voce, Armonica
    – Jerry Cantrell – Chitarra acustica, Chitarra elettrica
    – Mike Starr – Basso
    – Sean Kinney – Batteria, Percussioni

    TRACKLIST:
    1. Rotten Apple (06:59)
    2. Nutshell (04:19)
    3. I Stay Away (04:14)
    4. No Excuses (04:15)
    5. Whale and Wasp (02:37)
    6. Don’t Follow (04:22)
    7. Swing On This (04:05)

    #19121
    Anonimo
    Ospite

    Kurt74 – 29/12/2007 9:48 PM

    [Per la precisione il quarto album e’ uscito senza titolo ico01

    Sì, lo so che è uscito senza titolo (infatti è più preciso parlare di Led Zeppelin IV come dell’ intitled album), tuttavia è universalmente noto con il numero della progressione dei primi quattro lavori. Non volevo appesantire con precisazioni la recensione di Led Zeppelin I (che, se proprio vogliamo essere rigorosi, si intitola Led Zeppelin e basta), l’avrei inserita in quella dell’intitled album, che è già in cantiere ico01

    #19191
    shadowgrunge
    Partecipante

    AUDIOSLAVE – AUDIOSLAVE

    Primo album omonimo della “superband” formata dagli ex membri dei Rage Against The Machine, con la voce, al posto di Zack de la Rocha, Chris Cornell, ex leader dei Soundgarden.
    Il disco inizia con la potente “Cochise”, che esplode dopo uno slego muto iniziale con il grido di Cornell, l’album continua sempre con sonorità Hard Rock con l’energia di “Show Me How To Live”, “Gasoline” e “What You Are”; quest’ultima che introduce alla quarta traccia “Like A Stone”, il brano di maggior successo, caratterizzato dalla voce di Chris più morbida ed emotiva e da un interessante slego di Tom Morello. L’album recupera per 4 minuti la sua energia con “Set It Off”, per poi affondare nuovamente nel ritmo lento e malinconico della morbida voce roca del cantante, sofficemente accompagnata dagli strumenti, che caricano di emotività “Shadow On The Sun” e “I Am The Highway”. Si continua con “Exploder”, puro hard rock, e con “Hypnotize”, che risente notevolmente del passato di Chris Cornell nei Soundgarden. Il disco procede, senza troppe novità, con “Bring Em Back Alive” (qui invece si sente il passato RATM della band), “Light My Way” e “Getaway Car”, tutti bran che presentano raffinati sleghi della chitarra di Morello e favolosi acuti di Cornell, che si concludono adeguatamente, dopo quasi 63 minuti, con “The Last Remaining Light”.

    Tracklist:
    1. Cochise – 3:44
    2. Show Me How to Live – 4:37
    3. Gasoline – 4:40
    4. What You Are – 4:09
    5. Like a Stone – 4:54
    6. Set It Off – 4:23
    7. Shadow on the Sun – 5:43
    8. I Am The Highway – 5:35
    9. Exploder – 3:26
    10. Hypnotize – 3:26
    11. Bring ‘Em Back Alive – 5:29
    12. Light My Way – 5:03
    13. Getaway Car – 4:59
    14. The Last Remaining Light – 5:17

    Formazione:
    Chris Cornell – voce
    Tom Morello – chitarra
    Tim Commerford – basso
    Brad Wilk – batteria

    #19217
    Sappy
    Moderatore

    Mudhoney: Superfuzz Bigmuff plus Early Singles

    Prima di tutto, i Mudhoney sono Seattle; cioè Mark Arm, chitarra e urli, prima del Miele di Fango faceva parte dei Green River, capito? Una delle prime selvagge ultradistorte formazioni di quello che poi qualcuno volle definire “Grunge”. Chi se non Mudhoney sono Seattle? Confezionarono i Mudhoney, nel lontano 1989 il primo inno e poi il primo grande disco di una generazione. Ed ebbero anche il gran buon gusto di chiamare quel disco col nome di uno dei più selvaggi ed efferati effetti per chitarra mai creati: quel fuzz macilento, ridondante grasso sporco e cremoso che passa sotto il nome di Big Muff. Perchè anche loro erano cosi: selvaggi e sfrenati, grassi e marci.
    Da un po’ di anni la Sub Pop vi spara Superfuzz Bigmuff in edizione speciale con in più tutti i primi 45 giri dei nostri, cioè un capolavoro assoluto. E se volete il primo singolo, quel terrificante inno chiamato “Touch me I’m sick” ve lo trovate anche in versione 45 giri a soli 7,50 dollari sul sito della Sub Pop. E vi assicuro che non solo il contenuto, ma anche la copertina vale eccome l’acquisto: una latrina del cesso stampata in primo piano e null’altro. Semplicemente geniale.
    “Touch me I’m sick” è l’apertura di Superfuzz Bigmuff nella nuova veste; un terrorifico garage che non è solo riproposizione degli esperimenti anni ’60, ma diventa una cupa e sgraziata e violenta colonna sonora di una generazione ben più disillusa; la storia di un malato di AIDS. La B-side non è da meno: “Sweet Young Thing Ain’t Sweet No More” è blues calato in una coltre di distorsioni e slide di psichedelica reminiscenza, ma con un’attitudine viscerale e pessimista che lo rende unico, e al di la dell’apparenza “vintage” anche terribilmente attuale; due marci gioielli. L’altro grande capolavoro della parte dedicata ai 45 è la cover di “Halloween” dei Sonic Youth, immaginatevela un po’ meno eterea che nell’originale e in compenso più tribale, disperata e pesante (nel senso di “heavy”), quasi se possibile superiore alla versione di Bad Moon Rising. Il disco vero e proprio è quasi sempre altrettanto malatamente fascinoso: da dolenti ballads come “If I Think”, a sparate distorte come “No One Has” o “Need”, quest’ ultima quasi più Husker Dü che Detroit.

    #19218
    Sappy
    Moderatore

    Kyuss
    Blues For The Red Sun (Dali 1992)

    I californiani Kyuss (John Garcia al canto, Josh Homme alla chitarra, Nick Oliveri al basso e Brant Bjork alla batteria) sono i campioni riconosciuti dello stoner, genere a metà tra strada tra hard rock e psichedelia, sulle tracce di band come Blue Cheer, Black Sabbath e Hawkwind.
    Blues For The Red Sun, loro terzo disco è anche il loro capolavoro: prodotto da Chris Goss dei Masters Of Reality e dal gruppo stesso,vede i ragazzi di Palm Desert definire le coordinate del genere, creando un suono che può essere definito con due aggettivi: “fat and loud”; ciò anche grazie a speciali accorgimenti tecnici, primo fra tutti l’uso di amplificatori da basso per le chitarre.
    Il risultato è talmente suggestivo da dare l’impressione di essere catapultati in mezzo al deserto, sotto il sole accecante e in preda ai miraggi. Già la prima traccia Thumb rende bene l’idea di ciò che sarà il disco: intro arpeggiata affidata a un bordone di basso e ad un giro di chitarra blues. Ma neanche lo spazio di un minuto e ci si ritrova catapultati in una cadenzata marcia a ritmo di panzer, e, sopra tutto e tutti, la voce di Garcia, ruvida e sgraziata, ma piena di feeling. Il resto dell’album non concede alcuna tregua: Green Machine,la più rockeggiante, col suo riff frenetico e il refrain da cantare a squarciagola; l’allucinato blues di Thong Song, che alterna momenti di calma apparente e violente esplosioni, prima di lanciarsi in un disperato finale, in cui troneggia la voce di Garcia, ossessiva e lancinante. Alien’s Wrench è un assalto all’arma bianca, rumoroso come solo dei Blue Cheer moltiplicati al cubo avrebbero potuto fare. Writhe è un’atipica pop song dall’andatura sonnolenta, che richiama certe produzioni degli Smashing Pumpkins. Ci sono poi pezzi lunghi, quasi tutti interamente strumentali, nei quali i Kyuss danno pieno sfogo alla loro anima lisergica: c’è la corsa sfrenata verso il nulla di 50 Million Year Trip, l’incubo paranoico di Mondo Generator, nella quale il cantato di Garcia si riduce a un ammasso di urla filtrate, c’è soprattutto Freedom Run, che dopo un intro a base di effetti spaziali e voci in loop, si lancia in un imprendibile cavalcata, acida e marziale.

    #19219
    Sappy
    Moderatore

    Kyuss
    Blues For The Red Sun (Dali 1992)

    I californiani Kyuss (John Garcia al canto, Josh Homme alla chitarra, Nick Oliveri al basso e Brant Bjork alla batteria) sono i campioni riconosciuti dello stoner, genere a metà tra strada tra hard rock e psichedelia, sulle tracce di band come Blue Cheer, Black Sabbath e Hawkwind.
    Blues For The Red Sun, loro terzo disco è anche il loro capolavoro: prodotto da Chris Goss dei Masters Of Reality e dal gruppo stesso,vede i ragazzi di Palm Desert definire le coordinate del genere, creando un suono che può essere definito con due aggettivi: “fat and loud”; ciò anche grazie a speciali accorgimenti tecnici, primo fra tutti l’uso di amplificatori da basso per le chitarre.
    Il risultato è talmente suggestivo da dare l’impressione di essere catapultati in mezzo al deserto, sotto il sole accecante e in preda ai miraggi. Già la prima traccia Thumb rende bene l’idea di ciò che sarà il disco: intro arpeggiata affidata a un bordone di basso e ad un giro di chitarra blues. Ma neanche lo spazio di un minuto e ci si ritrova catapultati in una cadenzata marcia a ritmo di panzer, e, sopra tutto e tutti, la voce di Garcia, ruvida e sgraziata, ma piena di feeling. Il resto dell’album non concede alcuna tregua: Green Machine,la più rockeggiante, col suo riff frenetico e il refrain da cantare a squarciagola; l’allucinato blues di Thong Song, che alterna momenti di calma apparente e violente esplosioni, prima di lanciarsi in un disperato finale, in cui troneggia la voce di Garcia, ossessiva e lancinante. Alien’s Wrench è un assalto all’arma bianca, rumoroso come solo dei Blue Cheer moltiplicati al cubo avrebbero potuto fare. Writhe è un’atipica pop song dall’andatura sonnolenta, che richiama certe produzioni degli Smashing Pumpkins. Ci sono poi pezzi lunghi, quasi tutti interamente strumentali, nei quali i Kyuss danno pieno sfogo alla loro anima lisergica: c’è la corsa sfrenata verso il nulla di 50 Million Year Trip, l’incubo paranoico di Mondo Generator, nella quale il cantato di Garcia si riduce a un ammasso di urla filtrate, c’è soprattutto Freedom Run, che dopo un intro a base di effetti spaziali e voci in loop, si lancia in un imprendibile cavalcata, acida e marziale.

    #19220
    Sappy
    Moderatore

    VERDENA – REQUIEM

    Ci si cominciava a chiedere che fine avessero fatto i Verdena dopo quello splendido Suicidio Del Samurai di tre anni fa che li aveva consacrati definitivamente come una tra le migliori rock-band italiane. E finalmente troviamo la risposta. Per Requiem i Verdena tornano ad essere un power-trio come dio comanda, abbandonando per strada il tastierista Fidel che in effetti non aveva lasciato ricordi indelebili nell’immaginario collettivo.
    Le canzoni: quindici. Tante, si direbbe. In realtà almeno quattro sono intermezzi musicali ben caratterizzati: Marty In The Sky apre il disco con lo scoppio di una bomba e il clamore che ne consegue. Fin troppo facile intuire la metafora dell’album che provoca il botto. Meno allegorici gli altri tre “intervalli”: ritmo tribale per Aha, atmosfera cosmica per Opanono, semplice melodia per Faro.
    Ma perché continuare a nascondersi dietro a queste inezie che non dicono nulla di rilevante?
    E allora diciamolo: che i Verdena se ne sono usciti con un altro ottimo disco, uno di quelli che bastano due-tre ascolti per capire che vale davvero, che non è una bufala del momento. Che canzoni come Non Prendere L’acme, Eugenio, Isacco Nucleare e Il Gulliver non escono tutti i giorni nel depresso panorama musicale italiano.
    E’ vero, i Verdena non hanno inventato nulla, assolutamente nulla. Questo è ormai un dato di fatto inequivocabile. E anche Requiem non offre nuove strade da percorrere alla musica contemporanea, ci mancherebbe. E’ però sicuramente un bel segnale di vita per il rock nostrano. Soprattutto per il fatto che il gruppo si avventura in territori musicali diversi dal solito, confermando la tendenza già mostrata nel precedente album di abbandonare le semplici canzoncine dai toni eccessivamente morbidi (qui rimane solo la tenera Trovami, un modo semplice per uscirne) e di evolversi verso un rock più sporco, lascivo e distorto.
    Hard rock ma non solo, perché aldilà dei riff pesantissimi di Don Callisto e Il Caos Strisciante si rimane soprattutto sorpresi dalle sonorità post-stoner che traspaiono un po’ ovunque. Ascoltando brani come Isacco Nucleare, Canos, Was? e il singolo Muori Delay sembra proprio che Ferrari e compagni si siano fatti una scorpacciata della discografia dei Queens of the Stone Ages e poi abbiano tentato di imitarli. Il confine tra rielaborazione e plagio è molto sottile, e se optiamo per la prima opzione è perché comunque anche in questi brani traspare un’acquisita maturità compositiva e un’attitudine decadente e cupa tipica della band bergamasca.
    Stupisce soprattutto il fatto che li avevamo lasciati ancora con l’etichetta di “Nirvana italiani” e li ritroviamo più eclettici, capaci di aumentare le dosi di psichedelia (a sprazzi in mezzo al wall of sound di Non Prendere L’acme Eugenio e nella lunga cavalcata di Sotto Prescrizione Del Dott. Huxley) e di fonderla con impreviste tendenze progressive le quali traspaiono nella splendida semi-ballata Angie e soprattutto nella coraggiosa Il Gulliver: dodici minuti di continui cambi di ritmo e riff devastanti in cui Ferrari alterna lingua italiana e inglese.
    Quasi stupisce di trovare anche un brano interamente acustico: un’eccezione in mezzo a un disco possente, cattivo, a tratti incazzato. Una conferma importante. E forse anche qualcosa di più.

    #19221
    Sappy
    Moderatore

    kurt spero che ti piacciono le mie recensioni… ico03

    #19158
    Kurt74
    Amministratore del forum

    certo certo
    molto ben fatte

    ho sentito un pezzo dei kyuss sono tosti forti

    #19222
    Sappy
    Moderatore

    mi fà molto piacere che li apprezzi…valgono molto come band…purtroppo si sono sciolti ma…bhè…pazienza….accontentiamoci dei queens of the stone age… ico03

    #19223
    Sappy
    Moderatore

    Metallica
    Master Of Puppets (Elektra 1986)

    Il 1986 verrà ricordato, in ambito musicale, anche –e soprattutto- per la clamorosa esplosione del thrash metal, un genere nato e cresciuto nella Bay Area, costa della California, che univa assieme la precisione chirurgica del primo heavy metal con la rabbia e la velocità dell’hardcore punk. Sebbene già conosciuti negli anni precedenti, grazie ad album di ottima fattura, i maggiori pilastri del genere (Slayer, Venom e Metallica) si consacrarono definitivamente proprio in questi dodici mesi, creando capolavori atti a rimanere, per sempre, nella memoria di ogni musicofilo degno di questa nomea.
    E’ innegabile affermare che “Master Of Puppets” dei Metallica è stato, è e rimarrà un disco epocale. Poco più di cinquanta minuti di storia: ciò basta –e avanza- per proiettare Kirk Hammett (chitarra elettrica), Cliff Burton (basso), James Hetfield (voce e chitarra elettrica) e Lars Ulrich (batteria) nell’albo d’oro degli indimenticabili -e degli indimenticati-. E’ bene sottolineare che, comunque sia, il thrash metal che si può avvertire in quest’opera è sensibilmente diverso da quello dei cugini Slayer e Venom: se i primi prediligevano l’estremismo, con sfuriate brevi, violente ed estremamente veloci, ed i secondi giocavano tutto sopra ad un barocchismo teatrale ed intenso, i Metallica decidevano di scegliere la via più articolata, con pezzi che sovente sforano il tetto dei cinque minuti, grazie ad una spiccata vena compositiva, ricca e fiorente, capace di districarsi nei territori più disparati senza perdere il benché minimo calibro di potenza ed impatto sonoro.
    Ed è quando partono le note dell’opening track “Battery” che si capisce davvero il motivo dell’ingombrante nomea di capolavoro generazionale. Si può già immaginare l’addestrata mano di Hammett che, in preda ad un raptus sconosciuto, fra una strofa e l’altra, mentre Hetfield sputa fuori le sue sentenze di polvere e sangue, mentre Ulrich fa implodere la doppia cassa, mentre un giovanissimo Burton –ignaro della crudeltà che gli riserverà il destino da qui a breve- tartassa le sue sei corde, si muove frenetica sui box di una tastiera infuocata, per cominciare un assolo senza tempo né età, dove lo spazio si distorce, violentato e privato della sua naturale cognizione.
    “Master of puppets, I’m pulling your strings/ Twisting your mind and smashing your dreams/ Blinded by me, you can’t see a thing/ Just call my name, ‘cause I’ll hear you scream/ Master/ Master/ Just call my name, ‘cause I’ll hear you scream/ Master/Master”

    E’ un maledetto giocoforza. E’ uno stupidissimo rapporto fra potente, visto come un burattinaio, e un sottomesso, che si rassegna al suo destino, vomitando acido sul mondo e tutto quanto ne concerne, perché nulla lo può ritrarre dalla condizione in cui versa. Ma è anche una dolce ballata, nella quale il calpestato si apre, come uno scrigno difettoso, al risuonare del morbido assolo di Cliff Burton, cercando comprensione ed appoggio. Mera illusione: con un rumoroso tonfo, un altro assolo, crudo e velocissimo, ne stronca qualsivoglia sentimentalismo sul nascere, per annegare nella sua stessa, retorica amarezza, in una corsa mai iniziata, rimpiangendo la debolezza dell’aiuto richiesto (“Laughter, laughter/ Laughing at my cries/ Fix me”). Ed è solo alla fine, quando il trionfo si completa in maniera irreversibile, che si avverte il potere infinito del burattinaio: una risata grassa, beffarda, sardonica, priva di gioia e profondità, che si spegne sul fondo con un retrogusto amaro. In tre parole, “Master Of Puppets”: un capolavoro imprescindibile del metal.
    Si ha quasi timore a rompere il perfetto meccanismo creato dal binomio d’apertura, con il riff, vagamente Far West, che dà il via a “The Thing That Should Not Be”, composizione dinamitarda in bilico fra attacchi thrash, inserimenti di più classico heavy metal (ecco da dove viene la pluripremiata “Enter Sandman”…), arpeggi cupi e rimbombanti, con un assolo sferragliante, veloce e lacerante, dalle pesanti influenze industrial.
    L’attenzione viene focalizzata sulla successiva “Welcome Home (Sanitarium)”, una sorta di ballad dalla struttura semicircolare, dove il basso di Burton è liberissimo di spaziare fra le scale cromatiche –da ascoltare l’ennesima performance solitaria-, mentre la voce cavernosa di Hetfield tuona, di riff in riff, le (dis)avventure di un soldato al ritorno dalla guerra (più che evidenti gli strascichi polemici post-Vietnam).
    Ma tutta la reale potenza sonora dell’album si concentra in “Disposable Heroes”, una vera e propria carabina dalla violenza eccezionale, capace di essere ruvida ed assassina per oltre otto minuti, grazie ad un Lars Ulrich che, con un ritmo schizofrenico, supporta alla perfezione quello che è l’infernale lavoro delle chitarre, velocissime e sempre in movimento, sia nei riff, sporchi e dissonanti, che negli assoli, acuti ed estremamente tecnici.
    Il solo vero passo falso di “Master Of Puppets” è dato da “Leper Messiah”, pesantissima mazzata di impacciato heavy metal, spesso ripetitivo, che strizza l’occhio agli Anthrax, senza trovare quella freschezza compositiva che si era finora registrata in tutti i pezzi dell’opera. In poche parole: poche idee, troppo riciclo.
    Ma che questo sia tecnicamente un capolavoro, non viene messo in discussione nemmeno per un momento: il cervello si perde nei reconditi meandri dello spazio, ritornato integro e proiettato in una dimensione parallela. Ecco che avviene la magia di “Orion”, una lunghissima strumentale, uno dei tanti marchi di fabbrica della band, probabilmente il migliore brano dell’album, dominata in lungo e in largo dall’enorme genio creativo di Cliff Burton, capace di prendere il comando del timone per poi farlo veleggiare in mezzo a tempeste sonore senza il benché minimo rischio di sbandamento. Ogni suo riff entra di fatto nella leggenda: è solo lui che riesce a sostituire, senza danneggiare l’impalcatura che sorregge la canzone, gli accordi di hard’n’heavy con un blues rock ammaliante ed ipnotizzante, che si distorce infuocato prima in un assolo, poi in una sparata thrash metal da far impallidire qualsiasi complesso con pretese distruttive.
    Ed arriva l’epitaffio finale, “Damage, Inc.”: l’incipit vagamente new age si trasforma, come nel migliore (o peggiore?) incubo, in una sfuriata thrash metal dalle spiccate influenze slayeriane, agile e cacofonica, anche nell’ingombrante assolo –marca Hammett- che lacera fragorosamente i timpani dell’ascoltatore. E tutto si chiude a spirale in un silenzio che vale molto più di mille parole.
    Il resto, purtroppo, è anch’esso storia.
    Il 27 settembre 1986, in Svezia, poco tempo dopo la release di “Master Of Puppets”, il ventiquattrenne Burton perse la vita in un orrendo incidente stradale, schiacciato sotto il pullman che i Metallica usavano per spostarsi nel paese scandinavo.
    Nel 1991 la band californiana diede il completo addio al thrash metal, abbracciando sonorità più morbide e commerciali, con l’uscita dell’omonimo album, detto anche “Black Album” per il colore della copertina. Da allora, una delusione dietro l’altra, sempre più cocente, fino all’indecente “St.Anger” datato 2003.
    Eppure, ascoltando una volta dietro l’altra questo “Master Of Puppets”, ci si chiede come sia possibile che i Four Horsemen siano stati plagiati da MTV in modo così netto e definitivo.

    #19224
    Sappy
    Moderatore

    SONIC YOUTH Daydream Nation

    I newyorkesi Sonic Youth sono fra i gruppi che hanno osato di più nella storia del rock, nonché una delle formazioni più imitate degli ultimi due decenni. Non si contano, ancora oggi, i discepoli della loro “noise wave”, fondata su un chitarrismo atipico, ma ormai inconfondibile, in cui non vi è differenza fra ritmica e solistica, poiché tutto converge in un fluire disarmonico. Con la loro etica nichilista e irriverente, retaggio dell’era punk, con il loro ostentato rifiuto del music-business e del conformismo che lo contraddistingue, sono diventati quasi il prototipo della “indie-band”. Almeno finché una major non si è accorta di loro, gettando la sua “longa manus” sulle loro opere.

    Il gruppo si forma durante la Noise Fest, organizzata nel 1981 al White Columns dal chitarrista Thurston Moore. Oltre a Moore, la band annovera l’altro chitarrista Lee Ranaldo (già nell’entourage di Glenn Branca), la bassista Kim Gordon (ex studentessa d’arte a Los Angeles, nonché compagna di Moore) e il batterista Steve Shelly. I riferimenti musicali dell’ensemble sono principalmente la scena punk più estrema, il garage-rock, qualche elemento di musica industriale e le assordanti sinfonie “avant-garde” di Glenn Branca. Un repertorio messo in mostra già nell’Ep d’esordio, “Sonic Youth” (1982), che segna un punto di contatto tra le musiche che li avevano influenzati.

    L’anno successivo arriva l’album d’esordio “Confusion Is Sex”, rivoluzionario ed estremo. Il successivo “Bad Moon Rising” (1984) si presenta come una lunga suite psichedelica, tesa e dissonante: la singolare fusione di stili fa pensare a un ideale incontro tra Grateful Dead e Velvet Underground. Nel 1985 è il turno di “Evol”, altro ottimo album che fa leva soprattutto su melodie armoniose, lacerate però dalle chitarre scordate e dal canto urlato o appiattito di Moore o della Gordon. “Sister”, uscito l’anno dopo, è un ulteriore passo avanti in quella direzione.

    Ma è nel 1988, con “Daydream Nation” che lo stile dei Sonic Youth si definisce alla perfezione. Squilibrio psichico, apocalisse metropolitana, rumore metallico e percussività insistente convergono in un doppio album “manifesto” che svela l’altra faccia del Sogno Americano (“I wanted to know the exact dimensions of hell”, declama Gordon in tono fatalmente decadente). La rabbia antagonista dei Sonic Youth si consuma in una folle corsa verso il baratro di quella Death Valley decantata agli esordi.

    “Daydream Nation” è un compendio definitivo del chitarrismo della Gioventù Sonica. Lee Ranaldo riproduce ogni tipo di rumore con distorsioni estreme, Thurston Moore lo asseconda e lo completa, mentre Kim Gordon si dedica al sottofondo di basso, onnipresente insieme alla batteria, e poi sfodera la sua voce gelida; e su questo intreccio caotico si staglia una percussività ossessiva, che non dà scampo.

    La distorsione valvolare delle sei corde è il marchio di fabbrica dell’ensemble: rumore al calor bianco, che contribuisce a dipingere affreschi di cupa tensione metropolitana. Ma ogni elemento del sound-Sonic Youth viene portato a compimento, in un processo di maturazione che ha del portentoso. Ogni traccia, infatti, rivela una compattezza sonora senza precedenti e uno sperimentalismo accurato, profondo, ma mai fine a se stesso.

    L’album, dalla inconfondibile copertina “scura” (una candela accesa su sfondo nero), è pervaso da una costante vena satirica. Un intento palese fin dall’inizio, affidato al memorabile riff di “Teen Age Riot”, rock-anthem travolgente, da ko immediato. E’ l’urlo dell’altra America, quella “underground”, che sogna di sottrarsi alla morsa del reaganismo. L’altrettanto torrenziale “Total Trash”, jam acida di reediana memoria, rimanda anch’essa a proteste e slogan. Ogni brano ha un inizio, uno svolgersi e un termine, scorrendo agevolmente senza rinunciare ad alcun tipo di escursione sonora. Il capolavoro “Trilogy” – quasi quattordici minuti di delirio puro – annovera tre momenti, il primo episodio (“Wonder”), serrato, dissonante, dal testo allucinato e sarcastico; il secondo “Hyperstation” è invece immerso in un clima di squilibrio psichico: un’atmosfera orrorifica, sulla quale la chitarra ricama scale pungenti, mentre il finale “Eliminator Jr” è un hardcore distorto e suonato velocissimo.

    Trovano poi spazio nel disco ballate garage-rock come “Eric’s Trip” e “Hey Jony”, o ancora brani psichedelici dall’effetto suggestivamente “straniante”, come “Kissability” e “The Sprawl”, gioielli del canto maliardo di Gordon. “Silver Rocket” e “Rain King”, costruiti su imponenti muri di chitarre e distorsioni assordanti, sono invece affidati alla voce di Moore, mentre in “Candle” la chitarra di Ranaldo si contorce e si arrotola su sé stessa fino all’inverosimile.

    “Daydream Nation” non è solo un classico: è uno spartiacque nella storia del rock. Con i suoi baccanali fragorosi, miracolosamente legati ad armonie pop, segna la nuova frontiera del rumore applicato al formato-canzone. Già, perché sempre di canzoni – seppur d’avanguardia – trattasi, quando si tratta dei Sonic Youth. E se di “noise-rock” oggi si può parlare, il merito è in gran parte loro.

    track list

    Teen Age Riot
    Silver Rocket
    The Sprawl
    ‘Cross The Breeze
    Eric’s Trip
    Total Trash
    Hey Toni
    Providence
    Candle
    Rain King
    Kissability
    Trilogy:
    -The Wonder
    -Hyperstation
    -Eliminator Jr.

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