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11 Gennaio 2008 alle 18:06 #19225SappyModeratore
belLe eh?…che ne pensi kurt? ico03
11 Gennaio 2008 alle 19:01 #19159Kurt74Amministratore del forumeccellenti, Master of Puppets ti cambia la vita.
11 Gennaio 2008 alle 19:03 #19226SappyModeratoreeheh si…cmq speriamo che l’album dei metallica che è in arrivo sia decente…almeno speriamo sia meglio di quel macello di st. anger
14 Gennaio 2008 alle 20:01 #19227SappyModeratoreBurzum Filosofem
Per chi scrive, questo è il capolavoro assoluto di Burzum: Varg Vikernes in questo album supera i limiti più impensabili per regalare ai mortali dietro di lui questa oscura gemma fatta di distorsioni corrosive, screaming unici e inconfondibili e poesia, tenera e triste poesia.
Non ho mai avuto tanta difficoltà a mettere una parola dietro l’altra come per la recensione di questo glorioso disco: forse è per via dell’ammirazione che ho nutrito, nutro e sempre nutrirò per Filosofem, ma non voglio scrivere un qualcosa che non sia degno dell’opera d’arte che ho tra le mani; quindi voglio fare qualcosa di diverso dalle altre recensioni perchè questo disco è diverso e merita il meglio che si possa dire e scrivere.
Per questo ho deciso di eliminare le mie faziose formule fisse da recensore in favore delle parole del genio che ha composto tanta bellezza.
Prima ho scritto che questo disco è fatto di tenera e dolce poesia, beh, eccovi la prova oggettiva che Varg Vikernes è finissimo poeta:
quello che segua è il testo di Erblicket Die Töchter Des Firmaments, un raro esempio di poesia oscura, triste, maliconica…insomma grande poesia.leggete e rileggete…
Mi chiedo come sarà l’inverno
Con una primavera che non vedrò mai
Mi chiedo come sarà la notte
Con un giorno che non vedrò mai
Mi chiedo come sarà la vita
Con una luce che non vedrò mai
Mi chiedo come sarà la vita
Con un dolore che dura in eterno
In ogni notte c’è un nero diverso
In ogni notte desidero tornare
Al tempo in cui cavalcavo
Attraverso le foreste antiche
In ogni inverno c’è un freddo diverso
In ogni inverno mi sento così vecchio
Molto vecchio così come la notte
Molto vecchio così come il terribile freddo
Mi chiedo come sarà la vita
Con una morte che non vedrò mai
Mi chiedo perchè la vita deve essere
Una vita che dura in eterno
Mi chiedo come sarà la vita
Con una morte che non vedrò mai
Mi chiedo perchè la vita deve essere
Una vita che dura in eterno.
Erblicket Die Töchter Des Firmaments.Questo disco non finirà mai di stupire chi saprà ascoltarlo e amarlo: sono emozioni uniche quelle che questo gioiello dispensa ascolto dopo ascolto e alla fine quello che ti rimane è un senso di indicibile malinconia, un alone grigio che ti porta a riflettere sulla tua condizione di uomo, sulla tua vita.
Molti si staranno chiedendo se può un disco, così poco curato e concepito da un assassino, provocare tutte queste emozioni…ebbene si, la risposta è SI!
Varg Vikernes può…
…io non ne ho il minimo dubbio: e voi ?Tracklist:
1 – Dunkelheit (7:05)
2 – Jesus’ Tod (8:39)
3 – Erblicket Die Töchter Des Firmaments (7:53)
4 – Gebrechlichkeit I (7:53)
5 – Rundgang Um Die Transzendentale Säule Der Singularität (25:11)
6 – Gebrechlichkeit II (7:53)15 Gennaio 2008 alle 15:22 #19228SappyModeratorekurt nn ti piace molto burzum eh?…a me piace perchè fà tutto da solo…come me…suona tutto lui… ico03
15 Gennaio 2008 alle 17:09 #19160Kurt74Amministratore del forumda solo fa anche troppo, spero tu non segua la sua strada ico01
15 Gennaio 2008 alle 20:45 #19229SappyModeratoreno…assolutamente….burzum è un pazzo…io no… ico03
16 Gennaio 2008 alle 14:04 #19230SappyModeratoreRadiohead
Kid A (Emi 2000)Nel 2000 i Radiohead dopo tre anni di lavoro spesi a buttar giù una trentina di canzoni fanno uscire Kid A. Otto mesi dopo con l’ennesima scelta commerciale suicida viene pubblicato l’ideale seguito Amnesiac. E’ la rivoluzione. Poche volte si è assistito a una svolta così radicale nel sound di un gruppo. E sinceramente non mi viene in mente un solo caso in cui ciò sia avvenuto in un momento di assoluto successo artistico e commerciale mondiale come quello che aveva baciato i Radiohead nel 1997. Osannati e beatificati come i nuovi messia del rock tutto faceva presagire che Yorke e soci avrebbero continuato a sfornare classiche canzoni di successo sullo stampo di Karma Police. Nessuno li avrebbe condannati, anzi tutti si aspettavano e desideravano ardentemente un approfondimento di quel campo sonoro.
Succede invece esattamente il contrario: i Radiohead se ne fregano di tutto e di tutti e decidono di portare avanti la loro ricerca sonora arrivando a esplorare nuove frontiere della musica conosciuta. L’importanza e la pienezza di Kid A e Amnesiac verranno comprese solo dopo qualche anno, perché in fondo questi due dischi sono avanti di almeno dieci anni rispetto al panorama musicale contemporaneo, allo stesso modo in cui erano troppo “evoluti” i Velvet Underground nel 1967 o gli Stooges nel 1969 nei loro rispettivi esordi.
Quasi impossibile trovare una classificazione soddisfacente, se non accontentadosi di un generico rimando all’elettronica indie, di lì a un paio d’anni etichettata come indietronica. Sarebbe riduttivo limitarci a questa generizzazione stilistica comunque, tanti sono gli stimoli e gli influssi che troviamo nell’opera, dalle tendenze jazz (già riscontrabili parzialmente negli album precendenti e qui chiaramente presenti, ad esempio in un pezzo come The National Anthem) all’arte minimalista (l’eterea Everything In Its Right Place e l’aliena Treefingers), dalla moderna dance (rimodellata in chiave personale nella martellante Idioteque il cui punto di forza è però nel contrasto tra un organo sintetico piatto e il canto passionale e devastante di Yorke) all’influsso degli sperimentatori colti del genere (Brian Eno, Tangerine Dream e, più recentemente, Aphex Twin).
Le canzoni “tradizionali” sono davvero poche: How To Disappear Completely (struggente ballata che non avrebbe sfigurato in Ok Computer), Optimistic (in cui torna a brillare la chitarra di Greenwood e il canto metafisico di Yorke) e la conclusiva Motion Picture Sound Track, ennesima dimostrazione di alienazione rispetto a un mondo irriconoscibile (“I think you’re crazy, maybe”). Più spesso tentare una classificazione delle composizioni riesce impossibile: si pensi al pastiche sonoro In Limbo o alla claustrofobica Morning Bell.
A differenza del più “instabile” Amnesiac, Kid A è album a modo suo solido e compatto, sia a livello musicale che “testuale”, tanto da poter parlare nuovamente (dopo Ok Computer) di concept album. Emerge in generale un’atmosfera di gelo, di glaciale estraneità nella storia del bimbo “A”, in un clima che si fa ancora più artificiale rispetto alla malinconia digitale di Ok Computer. Kid A è il tentativo di uscire completamente dagli schemi del ritornello-riff-ritornello e di creare un’opera d’arte che innova plasmando ai suoi scopi il modernariato elettronico, assoggettandolo ad una visione divenuta definitvamente onirica. Yorke e soci riescono ancora una volta nell’impresa di trasporre le ansie che li affliggono in musica.
Ecco che allora viene fuori la paura, meglio il terrore per i lati oscuri della modernità, per “l’era glaciale” (Idioteque) che sta arrivando e nei confronti della quale il “Kid A” (che altri non è se non l’anima dei Radiohead, che non ho timore a far coincidere in primis con Thom Yorke) non riesce ad adeguarsi (“I spiral down…I’m lost at sea…I’ve lost my way” da In Limbo) e che porta quindi al desiderio di scomparire, di fuggire prima che sia troppo tardi (il “Release me Please Release me” di Morning Bell). Se Ok Computer aveva chiuso tristemente un secolo cupo Kid A sembra aprirne uno ancora più impersonale e incolore.16 Gennaio 2008 alle 14:08 #19231SappyModeratoreRadiohead – Amnesiac
Si entra nel tunnel Amnesiac con “Packt like sardines in a crushd tin box”,un affascinante richiamo onirico dai toni caldi e pacati ma con un ritmo molto presente. Poi si cambia subito fronte passando a “Pyramid Song” una suite dalle sensazioni notturne con pianoforte ed archi della orchestra di St.John`s diretti da John Lubbock e accompagnata da un video che gira sui network, interamente realizzato in computer grafica. Coinvolgente è anche il trip hop soffuso di “Pulk/Pull revolving doors”,una delle innovazioni di questo album. Mentre con pezzi come “You and whose army?”, “I might be wrong” e “Knives out” qualcosa riporta alla mente le armonie di Ok Computer.
Sicuramente non sarà un nuovo tentativo di suicidio commerciale ma un audace decisione di rinnovamento,come dimostra il melting pot di climi tecnologici della leggera “Morning Bell/Amnesiac” e della mistica e incandescente “Dollars and Cents”. L`unico brano strumentale “Hunting Bears” è un mix di suoni analogici e digitali uniti al delay della chitarra di Ed O`brian;che introduce la maestosa “Like spinning plates” in cui il genio di Yorke dà il meglio di sè coniugando l`elettronica al sogno, in un`atmosfera da pianura annebbiata e senza sole circoscritta di malinconia; per poi diffondersi nel free jazz dei fiati di “Life in a glasshouse” con cui si chiude questo splendido disco.Amnesiac è presente sul mercato in due versioni: una semplice nella confezione standard del compact disc ed una limitata dove il cd è inserito in un libro rosso rilegato e ben confezionato con foto e disegni. Nel booklet della versione standard, non ci sono testi ma segni,disegni e parole. Ogni frase è una poesia o un concetto come anche le indicazioni di manutenzione del cd: “Store away from direct sunlight, preferably in a dark drawer with your secrets”.
16 Gennaio 2008 alle 14:10 #19232SappyModeratoreamnesiac e kid A…2 gioielli… ico03
22 Gennaio 2008 alle 15:55 #19122AnonimoOspiteNon ho dimenticato questo post… tra qualche giorno torno con nuove recensioni!
23 Gennaio 2008 alle 19:30 #19233SappyModeratoreTAD – Salt Lick
Se siete fra quelle persone che considerano la copertina di un album come una sorta di biglietto da visita dei suoi contenuti sonori, allora qui c’è pane per i vostri denti: si, perché una monster truck che avanza a tutta velocità verso di voi certamente non presagisce un impatto nè leggero, né di facile metabolizzazione… Ci tengono a giocare a carte scoperte i TAD, formazione di Seattle dei tardi anni ottanta, con questo loro secondo EP, edito dalla allora fervida Sub Pop e prodotto dal guru Steve Albini, ormai celebre su più fronti. Sei canzoni soltanto per sottolineare pubblicamente e consacrare al mondo il loro ingombrante approccio alla materia sonora, che li sprona a rifuggere a testa bassa le caratterizzazioni più scontate del nuovo rock statunitense allora in decollo a livello planetario e a porsi, al pari di pochi altri complessi del periodo (penso ai Melvins), al limite della scena stessa. Tad Doyle, il possente ex-macellaio da cui il gruppo prende il nome, butta sul fuoco più carne che può (nel vero senso della parola!), concludendo con questo “Salt Lick” il periodo più duro e puro dei TAD, la cui evoluzione definitiva comincerà col successivo 8 Way Santa. “Axe to Grind”, col battere ossessivo del suo riff portante e quella struttura inusuale ma ancor di più “High on the Hog”, completa di una strofa ai limiti del burlesco che si sposa ben presto con un ritornello granitico, tracciano il percorso scelto dai quattro per assaltare al meglio l’ascoltatore, prendendolo alla sprovvista. Da qui un avvicendarsi di colpi bassi fino al calar del sipario: canzoni tirate e urlate in faccia senza il minimo rispetto, senza il più elementare fronzolo ornamentale, all’insegna di un’immediatezza espressiva che è e sarà sempre marchio di fabbrica del signor Doyle. E cosa importa se tale ortodossia estremista porterà a scarsi risultati sul piano delle vendite e a continui conflitti con le varie etichette chiamate in causa di volta in volta? (Si faranno pure licenziare da una major!). A loro di certo nulla. A noi ascoltatori invece farà piacere assaporare la “fresca” ventata “birra e sudore” del loro acre e tonante rock ‘n roll, come altrettanto facile sarà renderci conto che la strada battuta dai TAD in questo EP è inequivocabilmente senza ritorno: tanto irta di rumore quanto vuota di elasticità (si ascolti il lato B). La mancanza di respiro è la principale spina nel fianco del gruppo al punto che nemmeno il presunto cavallo di battaglia “Loser” (edita a 45 giri con una delle creazioni più pregevoli del quartetto, “Cooking with Gas”), che per definizione dovrebbe rappresentare il loro lato più “orecchiabile”, riesce a scrollarsi di dosso questo pesante fardello. In definitiva “Salt Lick” è questo e non lo si può di certo cambiare, discorso che calza a pennello anche ai suoi autori: integrità e riluttanza a scendere a patti con chiunque. Del resto il leccare sale può risultare non esattamente piacevole ma, come per ogni esperienza particolare che si rispetti, sconsigliarlo a priori suonerebbe come una colpevole sciocchezza.
TRACKLIST:
1. Axe to Grind
2. High on the Hog
3. Loser
4. Hibernation
5. Glue Machine
6. Potlatch23 Gennaio 2008 alle 20:43 #19234SappyModeratoreWHITE STRIPES – Get Behind Me Satan
Jack “Il Bianco” non riesce proprio a stare fermo. Insieme a sua sorella/ex-moglie (non è, poi, così importante) Meg, ha riportato a Detroit lo spirito minimalista e selvaggio di gruppi come Stooges e MC5. Con una semplice e basilare chitarra, una batteria e due microfoni, i White Stripes hanno ritrovato il vecchio, primordiale, irruente spirito del blues suonato a tutto volume.
Dai riff hendrixiani di “White Stripes” (1999) al roots/hard-rock di “White Blood Cells” (2001), fino al botto commerciale di ” Elephant ” (2003), il duo americano compie un percorso musicale che lo avvicina sempre di più a uno stralunato e martellante incrocio tra Led Zeppelin e John Spencer Blues Explosion.A questo punto, i White Stripes hanno trovato la formula vincente: ottenere un grande successo commerciale pur non piegandosi alle leggi radiofoniche, mantenendo, insomma, la loro coerenza artistica e musicale. Jack “Il Bianco” potrebbe dormire sogni tranquilli e vivere di rendita con il suo inconfondibile garage-rock, ultimamente anche prestato alle pulsazioni del dancefloor. Sarebbe, tuttavia, piuttosto triste essere condannati a un’eterna ripetizione di “Seven Nation Army” e “The Hardest Button To Button” e, questo, Jack “Il Bianco”, per fortuna, lo sa.
Tra un paio di film e una scazzottata, giusto un paio di settimane bastano per registrare il nuovo disco: “Get Behind Me Satan”. Ed è proprio un bel titolo, visto che il demonio tentatore del successo facile è stato prontamente sconfitto a colpi di chitarra elettrica.
Certo, bisogna andare al di là del singolo che ha accompagnato il disco. “Blue Orchid”, infatti, sembra una nuova “Seven Nation Army”, leggermente gasata da tonalità dance manco l’avessero prodotta gli Scissor Sisters. Meg picchia con la sua batteria martellante, mentre il falsetto alla Robert Plant di Jack accompagna i pochi, elementari accordi di chitarra. Per carità, davvero una bella canzone, ma già starete pensando a questo disco come a un altro minestrone scaldato.Invece, basta ascoltare il delirio psichedelico di “The Nurse” per capire che, questa volta, i White Stripes hanno cambiato registro. Stralunata filastrocca che sembra uscita da un film noir in bianco e nero, “The Nurse” decolla grazie a una marimba stralunata e una batteria al limite del sintetico.
Sembra strano, ma è vero: Jack “Il Bianco” si è stufato dei riff ossessivi della sua chitarra rossa e bianca e, adesso, preferisce un piano ubriaco che sembra stato direttamente fregato a Tom Waits.Capisaldi di questo nuovo percorso sonoro, che amplia notevolmente il repertorio cui la creatura di Jack White ci aveva finora abituato fornendo la prova definitiva del suo talento, sono lo stuzzicante incedere di “My Doorbell”, che sembra uscita da un moderno “Physical Graffiti” imbevuto d’acido lisergico, con il suo formidabile numero di piano e una melodia irresistibile, e la ballata agrodolce “Forever For Her (Is Over For Me)”, ricordo aggiornato del Neil Young anni Settanta. I White Stripes giocano a tamburello tra passato e moderno con una gradevolissima dose di ironia, come dimostra la bizzarria da saloon di “I’m Lonely (But I Ain’t That Lonely)”.
Ovviamente, la matrice originaria del blues è sempre dietro l’angolo. “Red Rain” torna (peraltro con grande incisività) a esplorare il lato più doloroso della “musica del diavolo”, mentre “Instinct Blues” parla da sola, semplicemente con il suo titolo.
Tuttavia, il cuore di “Get Behind Me Satan” è decisamente allegro e scanzonato. Se lui si diverte a torturare il pianoforte, lei abbandona per un po’ la sua batteria minimale e ossessiva alla Moe Tucker (eccezion fatta per la trascinante “The Denial Twist”) per esplorare sonorità latine a ritmo di percussioni, congas e maracas. Pare, quindi, che i White Stripes si stiano divertendo da morire, alla faccia di chi parlava di gruppo seminale e di nuova sensazione rock.
“Litte Ghost” è una stupida filastrocca con la chitarra che sembra un piccolo ukulele (l’esperienza di Jack con Loretta Lynn insegna) mentre “Take, Take, Take” suona come una session perduta dei T.Rex.Blue Orchid
The Nurse
My Doorbell
Forever For Her (Is Over For Me)
Little Ghost
The Denial Twist
White Moon
Instinct Blues
Passive Manipulation
Take, Take, Take
As Ugly As I Seem
Red Rain
I’m Lonely (But I Ain’t That Lonely Yet) ico0325 Gennaio 2008 alle 9:29 #19123AnonimoOspiteLed Zeppelin – LED ZEPPELIN III
(Atlantic Records – pubblicato il 5 Ottobre 1970 – registrato negli Olympic Studios di Londra – prodotto da Jimmy Page e Peter Grant)
Formazione:
Robert Plant – voce e armonica
Jimmy Page – chitarra
John Paul Jones – basso
John Bonham- batteriaTracce:
1. Immigrant song (Page – Plant)
2. Friends (Page – Plant)
3. Celebration day (Page – Plant – Jones)
4. Since I’ve been loving you (Page – Plant – Jones)
5. Out on the titles (Page – Plant – Bonham)
6. Gallows Pole (Page – Plant)
7. Tangerine (Page)
8. That’s the way (Page – Plant)
9. Bron-Y- Aur Stomp (Page – Plant – Jones)
10. Hats off to (Roy) Harper (C. Obscure)Disco insolito, con questo terzo lavoro degli Zeppelin si lasciano un pò da parte i toni “forti” per scivolare verso quelli più morbidi, acustici e folk che facevano talvolta capolino nelle tracce del primo album della band.
Certo, la svolta verso queste tonalità passa per l’apertura hard della track-list: Immigrant song, resa indimenticabile e immediatamente riconoscibile, dal grido di Plant in apertura del brano (che è poi lo stesso che fanno gridare a BiancaNeve in “Schreck III” se avete presente…). Il brano, dedicato a Leif Ericson (esploratore islandese nato nel 970 circa e morto nel 1020), è noto anche per il testo che parla di ondate barbariche che si lanciano ala conquista delle Terre del Nord e che tanto ispirerà il filone dell’epic metal. Tra l’altro questa è l’unica canzone che ha avuto, da parte del gruppo, il benestare per essere utilizzata in un film (School of rock, del 2003).
Dalla seconda traccia in poi, inizia la svolta: si parte da “Friends” passando per “Celebration day” per arrivare a quello che viene (giustamente?) considerato il capolavoro del disco: “Since I’ve been loving you”, uno di quei blues che ti leva la pelle e ti fa sentire lo stomaco stretto stretto in una morsa e le gambe tremolanti.
Dalla metà della track list in poi la svolta diventa sempre più evidente, “Tangerine” “That’s the way” parlano da sé di questo “nuovo” (in realtà recuperato) sound. “Bron-Y-Aur Stomp” poi è per molti chitarristi una croce e una delizia!
L’album si chiude con “Hats off to (Roy) Harper” dedicata al chitarrista Roy Harper, cantautore folk.Questo terzo lavoro non fu accolto con grossissimo clamore dalla critica, sebbena abbia comunque ottenuto un disco d’oro. Tuttavia, non si diede seguito a un tour e iniziarono subito le registrazione dell’album senza titolo, il quarto… che porta alla scala per il paradiso…
Un consiglio, alcune delle tracce di questo disco sono state riproposte nel concerto tenuto da Jimmy Page e Robert Plant e sfociato nel disco “No quarter”… recuperatele perchè ne vale veramente la pena (anche perchè è straordianrio tutto, dall’inizio alla fine).
Esiste anche una versione di “Since I’ve been loving you” contenuta nel secondo cd dell’album della “BBC SESSION”… da rimanere col fiato mozzo (anche per tutte le altre tracce, ovviamente, va bé ok… io son di parte!)Buon ascolto, allora ico02
“Hammer of the Gods will drive our ships to new lands to fight the horde, singing and crying: ‘VALHALA, I’M COMING!!’…”
25 Gennaio 2008 alle 10:17 #19124AnonimoOspiteLed Zeppelin – Senza titolo
(Atlantic Records – pubblicato l’8 Novembre 1971 – registrato negli Islands Studios di Londra – prodotto da Jimmy Page)
Formazione:
Robert Plant – voce e armonica
Jimmy Page – chitarra
John Paul Jones – basso, organo e piano
John Bonham – batteria e timpaniTracce:
1. Black dog (Page – Plant – Jones)
2. Rock and roll (Page – Plant – Jones – Bonham)
3. The Battle of Evermore (Page – Plant)
4. Stairway to Heaven (Page – Plant)
5. Misty Mountain Hop (Page – Plant – Jones)
6. Four Sticks (Page – Plant)
7. Going to California (Page – Plant)
8. When the Levee Breaks (Page – Plant)Partecipazioni:
Ian Stewart – piano (su “Rock and roll” non accreditato)
Sandy Danny – voce in “The Battle of Evermore”Uscito formalmente senza titolo, noto quindi come “Led Zeppelin IV” o “The Runes Album” o “ZoSo” dal simbolo di Jimmy Page (sulla quarta di copertina sono stampati i quattro simboli che ogni componente del gruppo scelse per essere rappresentato), tutti conoscono quest’album perché contiene la discussa (ritenuta una delle migliori canzoni del rock) “Stairway to Heaven”.
Ma il quarto album non è solo questo.
Non c’è dubbio, dopo Led Zeppelin III, si torna all’hard rock, ce lo dicono “Black dog” (con quella fantastica batteria che sembra “sfasata” rispetto al riff di chitarra) e “Rock and roll” (per riconoscere la quale basta l’intro di batteria).
Ma… il quarto album non è solo questo, è proprio vero.
E a farci capire che il lavoro stavolta è poliedrico, interviene “The battle of Evermore”, ricca di echi e striature di mandolini, è accompagnata dalla voce di Sandy Danny (cantante dei Fairport Convention). In un certo senso anticipa “No quarter” contenuta in “The houses of the holy” del ’73. Si distigue anche per il testo, di ispirazione fantasy, contiene riferimenti alle opere di Tolkien (probabilmente anche alla battaglie del fosso di Helm, raccontata ne “Il Signore degli Anelli”).
Poi c’è lei, la scala per il Paradiso, su cui è stato scritto e riscritto, detto e ridetto di tutto. Al centro della track list, attira l’attenzione e forse, aimè, fa scivolare in secondo piano gli altri brani (ed è un gran peccato). Tra l’altro non uscì mai come vero e proprio singolo, paradossalmente.
Si passa alla seconda parte dell’album: “Misty Mountain Hop” e poi “Four Sticks” dal ritmo grandioso e intitolata così (“quattro bacchette” n.d.t.) perchè Bonham teneva due bacchette per mano durante le prove (se per giocherellare o per suonare questo non mi è ben chiaro…).
Ma il quarto album è anche un richiamo ai lavori precedenti… e infatti la settima traccia, “Going to California” ricorda un pò i suoni recuperati in Led Zeppelin III ed è piacevolemte dolce.
Arriva la chiusura del disco… pare che Page e Plant abbiano ripreso per “When the Levee Breaks” un blues di Memphis Minnie registrato nel 1929 col marito, Joe McCoe e, per creare quell’effetto tra l’eco e l’ovattato della batteria, spostarono lo strumento in un sottoscala in cui furono posizionati diversi microfoni. Canzone un pò paranoica, difficile scrollarsela dalle orecchie.Anche stavolta, vi suggerisco di andarvi a recuperare “Four Sticks” e “The battle of Evermore” nell’album “No Quarter” (il concerto di Jimmy Page e Robert Plant) e “Stairway to Heaven” nel secondo cd della “BBC SESSION”.
Per tutte le informazioni su Stairway to Heaven vi rimando a Wikipedia:
http://it.wikipedia.org/wiki/Stairway_to_Heaven
Buon ascolto, dunque ico02
“… It’s been a long time since I rock an’ rolled / It’s been a long time since I did the stroll / Oh, let me get it back, let me get it back, baby, where I come from…”
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