Definizione Progressive

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    Una volta si chiamava anche rock romantico, rock barocco, rock sinfonico, classic rock, art rock. Tutti termini fuorvianti, in parte ridicoli, inesatti, non esaustivi, infantili. Tutti comunque migliori di progressive.
    Tutti i lettori che un minimo si interessano di musica rock sanno cos’è questo genere musicale che ha avuto il suo apogeo nella prima metà degli anni 70, magari non lo amano ma presumibilmente hanno ascoltato alcuni dischi dei principali gruppi e probabilmente possono, o ritengono di potere, riconoscere se un brano appartiene al progressive o meno.
    Forse però le cose non sono così lineari. Cos’è che definisce il perimetro stilistico ed estetico del progressive ? Negli ultimi anni sono stati in parte attribuiti al genere, probabilmente al di là delle intenzioni degli autori, forme di espressione musicale recenti e apparentemente non legate primariamente a esso. Ed ecco che per gruppi come Radiohead, Sigur Ròs, Tarentel, Tortoise, Cerberus Schoal, Aloha, Muse, Godspeed You Black Emperor! si è riparlato di “progressive”.
    Il termine ha assunto così connotati molto sfumati, tanto sfumati che addirittura si è tentata una operazione retrospettiva attribuendo al genere forme musicali precedenti solitamente legate al rock-blues, alla psichedelia, al folk-rock, all’hard-rock. Così, con la massima disinvoltura, sono stati citati nel progressive i primi Fleetwood Mac, John Mayall, i Led Zeppelin, i Pentangle, i Cream ecc..
    Diciamo subito una cosa: chi scrive è in completo disaccordo. Ma perché negli ultimi anni è stato assunto questo atteggiamento critico sia da chi non ama il progressive, diciamo nella notazione più classica, sia dagli appassionati? Difficile dirlo con certezza, ma alcuni elementi sono da sottolineare: gli appassionati di progressive, magari anche contemporaneo, sono da decenni bombardati da una critica musicale che manifesta una ferocia verso il genere a volte francamente vicina alla psicopatologia, critica frutto a sua volta del radicarsi di alcuni miti musical-antropologici come il rifiuto della sovrastrutturazione e dell’autocompiacimento vissuti come onanismo intellettuale, il rifiuto della pretenziosità vista come freddezza (il famoso “rock del vero sentire”, una delle più grosse sciocchezze mai lette), il rifiuto della forma vista come assenza di sostanza (come se in musica esistesse qualcosa d’altro oltre la forma). Tutto questo ha lasciato il segno e la maggior parte dei prog-fan, quando è capitata l’opportunità di rompere l’accerchiamento immettendo nel genere musiche più criticamente accettate, ha colto la palla al balzo. I detrattori del prog, d’altra parte, non potendo ignorare l’importanza storica del movimento e la sua influenza, hanno di buon grado accettato di promuoverlo allargandone i limiti fino a ridurre il genere a qualcosa di meno definito e quindi più manipolabile dialetticamente. Entrambi hanno poi sfruttato il termine progressive stesso, da qui l’incipit della monografia, ponendo alla fine la definizione del genere non in relazione alla statica di uno stile, per quanto sfuggevole, ma in relazione alla dinamica di un’intenzione: progressive è diventato tutto ciò che “progredisce” verso altre forme di estetica musicale e ciò che prima era considerato progressive lo è stato nel suo tempo, ma ora tale “stile” non lo è più (e soprattutto non lo sono più gli epigoni del genere). Operazione alquanto ambigua.
    Definire un oggetto in senso dinamico significa alla fine non definirlo, ponendo le basi della più completa aleatorietà. L’uso di qualunque termine presuppone un accordo di massima sui perimetri di definizione dell’oggetto, nessun termine può essere definito relazionandolo al vissuto o alla visione soggettiva di un osservatore. Nessuno accetterebbe la definizione di un aereo come di “una cosa che sta in aria e il cui rumore mi dà fastidio”, né tantomeno di definire il treno “un mezzo innovativo per muovere persone e cose”. Alla fine dell’800 era innovativo, adesso no. Rimane comunque un treno. Inoltre, se ci si dovesse attenere alla definizione dialettica si dovrebbe scrivere, oltre che degli Yes e dei Genesis, anche di Bach, Beethoven, Shoenberg, Ligeti, Zappa, Tangerine Dream, Black Sabbath, Burt Bacharach… Credo che tutti indistintamente troverebbero questo ridicolo.
    Definire il progressive dunque come stile, definirne i perimetri estetici, l’humus emotivo. Non è così semplice. Sono stati, a mio parere a ragione, attribuiti in area progressive gruppi molto diversi, dal sinfonismo dei Renaissance agli sperimentalismi degli Henry Cow. Il progressive ha confini molto più vasti del blues o dell’heavy metal. Ma comunque li ha. Vediamo di definire alcuni punti.

    – Il rifiuto programmatico della “forma canzone”, il rifiuto della riduzione delle forme espressive del rock nell’ambito della rigidità strutturale del ritornello come fulcro dell’invenzione musicale.

    – Il poter prevedere nell’ambito del dispiegarsi di tale invenzione la creazione di pezzi molto lunghi, anche suddivisi in sottosezioni, con l’alternarsi nello stesso brano di situazioni musicali molto diverse.

    – Il massiccio utilizzo di cambi di tempo nella ritmica, spesso con tempi dispari.

    – L’utilizzo di strumentazioni molto allargate che superino la triangolazione chitarra-basso-batteria, con un utilizzo massiccio di tastiere (in particolare due strumenti leggendari come l’organo hammond e il mellotron), vero “marchio di fabbrica” per moltissimi gruppi progressive, ma anche di strumenti a fiato e a volte intere sezioni d’archi o orchestre.

    – Arrangiamenti molto ricchi e ridondanti, spesso con toni celebrativi e epici.

    – L’uso di strutturazioni spesso ritmicamente e melodicamente complesse con marcato sfruttamento di situazioni armoniche mutuate dalla musica classica (sia barocca che romantica), ma spesso anche dal jazz, con il superamento parziale delle radici blues fino ad allora imprescindibili nel rock.

    – In generale, lo svincolare la musica dal contesto sociale e/o politico; il progressive non riflette il reale ma al limite lo stempera nel fantastico, non porta messaggi sottotraccia ma solo estetismo fine a se stesso, puro, incontaminato, cristallino. Il progressive è rock che nasce e si sviluppa nella borghesia. Ovviamente a prescindere dalle opinioni sociali o politiche dei singoli musicisti.

    – Un uso molto limitato dell’improvvisazione.

    – L’uso di testi, grafica, diremo in generale “look”, tendente al metaforico, criptico, fantastico.

    – Un approccio strumentale tendenzialmente virtuosistico, con un rapporto quasi epico del musicista con il proprio strumento.

    Chiaramente nella musica progressive tali elementi spesso non sono presenti contemporaneamente e alcuni elementi sono presenti in altri generi, specialmente nella psichedelia, che infatti ha diversi punti di contatto e forme di passaggio con il progressive, ma la sintesi di molti di questi elementi definiscono il genere.

    Nell’ambito del progressive si annoverano dei capolavori così come dischi orrendi e ridicoli, minimo comune denominatore è comunque il tentativo, in parte riuscito, di vivere il rock come forma artistica in sé, senza alcuna altra determinazione (il divertimento, l’energia, l’aggressività, il ballo, lo sballo, il messaggio, il rilassamento).
    In tal senso, il progressive, che un critico ha definito giustamente la forma matura, post-adolescenziale, del rock, è stato negli anni d’oro il centro di una rivoluzione copernicana in cui la “musica giovane” non è stata più giovane ma solo musica, e in cui il rock ha assunto una dignità artistica fino allora sconosciuta.
    “La deliberata affermazione da parte mia, nel 1969, che era possibile nel rock richiamarsi alla testa oltre che ai piedi causò una sorta di esplosione passionale e fu considerata eretica” affermava Robert Fripp, e in tale frase si ha tutta la lucida programmazione del personaggio e le linee di sviluppo di tutto il genere.

    Il progressive ha una data di nascita? Sì e no. Anzitutto, prima di dare coordinate temporali, bisogna stabilire delle coordinate spaziali. Il progressive è un fenomeno principalmente europeo e in particolare inglese. Esistono e sono esistiti gruppi progressive a tutte le latitudini, dall’Est europeo all’Armenia, dal Sudamerica al Barhein, dal Giappone (dove il genere ha avuto e ha tutt’ora un certo seguito) all’Australia, ma nella sua massima espressione e nelle sue origini il progressive è un fenomeno inglese. Negli Stati Uniti, l’altro grande centro focale della musica rock, il progressive ha avuto espressione e diffusione limitata. Non è difficile capirne il motivo, una musica programmaticamente antispontaneistica, velleitaria, lontana in tutti i sensi dalle radici “nere” del rock e che tenta di legarsi, a volte in maniera anche posticcia, alla tradizione classica, è quanto di più lontano dalle forme estetiche ed emotive del rock statunitense.
    Ma c’è un primo disco progressive? A parere di chi scrive, esistono nodi inespressi di progressive in nuce, embrionale, in alcune espressioni legate al pop, alla psichedelia o al rock-blues; alcuni esempi? i Beatles di “Sgt. Pepper’s” (1967) o anche di “Abbey Road” (ma siamo già nel 1969), il rock blues barocco dei Colosseum (“Those Who Are About To Die” ma soprattutto il capolavoro “Valentyne Suite”, del 1969 ma anche dello splendido John Mayall di “Bare Wires” del 1968 (con peraltro i Colosseum quasi al completo), nella acuta psichedelia (statunitense) dei Love di “Forever Changes”, nei Pretty Things di “S.F. Sorrow”; tornando in Inghilterra, difficile non scorgere germi progressivi nel rock atipico dei Family dell’esordio di “Music In A Doll’s House” (1968) e del successivo “Family Entertainment”. Naturalmente nella scena della fine degli anni 60 andrebbero segnalati come proto-prog anche le opere prime dei Caravan, dei Soft Machine e dei primissimi Pink Floyd, tutti gruppi però meritevoli di una trattazione a parte. Nella maggior parte dei casi non si tratta di progressive, certamente, ma si nota un’ambizione e una tensione musicale che si esprimono con evidenti tentativi sovrastrutturali, manca completamente la cristallizzazione di uno stile nell’atto compositivo ed esecutivo, vi è però presente una potenzialità e intenzionalità primitiva. Non è progressive, ma se ne colgono le precondizioni.
    Più propriamente legate al genere nella sua gestazione iniziale, e su questo la critica appare concorde, le proposte di tre gruppi: i Nice, i Moody Blues e i Procol Harum.
    I Nice sono il gruppo in cui milita Keith Emerson, successivamente negli Emerson Lake and Palmer, nel bene e nel male tastierista simbolo di un’epoca, ed esordiscono nel 1967 con “The Thoughts Of Emerlist Davjack”, miscela ingenua di ipotesi di rock sinfonico embrionale e psichedelia, per poi proseguire nel 1969 con i due dischi più significativi della loro discografia, “Ars Longa Vita Brevis” e “The Nice”, in cui il talento di Emerson comincia a manifestarsi appieno e a strabordare nel contaminare il rock con ipotesi estroverse di classicismo, con rivisitazioni al contempo ingenue e affascinanti anche di alcuni classici (Rachmaninov, Sibelius).
    Sinfonismo che tentano anche i Moody Blues, che nel 1967 con l’esordio di “Days Of Future Passed” utilizzano una intera orchestra sinfonica oltre a una sovrabbondanza di tastiere (sono uno dei primi gruppi a utilizzare il mellotron) per sovrarrangiare i loro pezzi. Tale formula verrà ripetuta anche nei dischi successivi, si tratta però in realtà di un’operazione un po’ posticcia, essendo i brani ancora fermamente legati al pop e alla lezione dei Beatles.
    Più convincente, la proposta dei Procol Harum, gruppo celeberrimo per via di alcuni hit generazionali (“A Whiter Shade Of Pale” su tutti ma anche “Homburg” e “A Salty Dog”), ma in realtà spesso sconosciuto al di là di tali pezzi anche ai fan del progressive, che faticano a riconoscere nella loro proposta musicale un antecedente importante del genere nella sua compiutezza. E sì che il loro disco d’esordio del 1968 è godibilissimo nell’unire un impianto melodico pop, ma mai banale, con arrangiamenti anche ricchi e ridondanti, dominati dall’organo del leader Gary Brooker. Ancora meglio farà “Shine On Brigthly” l’anno successivo, con brani più complessi e nei quali appare addirittura una suite (“In Held Twas In I”), che avvicina strutturalmente ancor di più il gruppo a un progressive compiuto.
    Ma allora esiste un primo disco progressive? Esiste un inizio? In parte no, per gli antecedenti che abbiamo appena visto, in parte sì, esiste una data d’inizio: il 10 ottobre del 1969, data di uscita dell’opera prima dei King Crimson, il celeberrimo “In The Court Of The Crimson King”, disco tra i capolavori del progressive e del rock tutto. Superflua una dettagliata descrizione, basti dire che l’estrema pretenziosità del disco, la grande ampollosità ed epicità del suono, dominato e dilatato da un sovrautilizzo del mellotron, i testi metaforici, lo straordinario impatto melodico sovrastrutturato e decompresso da arrangiamenti ridondanti e drammatici fanno di questo disco il paradigma di molto progressive successivo.

    Dopo “In The Court Of The Crimson King” il progressive esplode e fino a metà degli anni 70 è il genere di riferimento e di maggior espansione del rock. Molti sono i gruppi, moltissime le proposte anche con sfumature molto diverse, tali da rendere difficile stabilirne un perimetro univoco, ma sostanzialmente il progressive artisticamente, commercialmente e storicamente si basa sull’opera di pochi grandi gruppi capiscuola che ne costituiscono il punto focale.
    Innanzi tutto, naturalmente, i King Crimson che sono, nell’ambito del progressive, il gruppo più raffinato e più ambizioso oltre che il più sfuggevole e camaleontico. Leader indiscusso, specialmente dopo l’esordio di “In The Court Of The Crimson King”, è il chitarrista Robert Fripp: linguaggio forbito, spesso verboso, ironico, distaccato, intellettuale, è l’antitesi dell’iconografia del musicista rock fino ad allora in voga. Non beve e non si droga, o per lo meno tali aspetti restano nel privato, le sue azioni, parole e musica non hanno nulla di spontaneo e viscerale, sul palco suona spesso seduto, algido e distante, in tal senso è il paradigma del musicista progressive, l’incarnazione di un programma e di un’idea.
    Dopo l’esordio, l’anno successivo esce “In The Wake Of Poseidon”, album interlocutorio seppur affascinante che ricalca il primo capolavoro; Fripp sfalda e ricompone il gruppo sempre più instabile ma dall’instabilità nascono due gioielli “Lizard” (1970) e “Island” (1971). Dischi di una raffinatezza irreale, appena un po’ leziosi, godono di una scrittura musicale felicissima, molto colta con ridondanti riferimenti classici e jazzistici (vi suona anche il grande pianista jazz Keith Tippett), di un’astrazione delicatissima. La progettualità di Fripp è di altissimo livello, una sfida: il termine art-rock vive in questa fase del gruppo il suo significato più pieno.
    Con “Island” termina la prima fase del gruppo che si scioglie, ma Fripp ha ancora dei progetti e riforma la band con una sezione ritmica potentissima e strabiliante costituita da Bill Bruford (ex Yes), John Wetton (ex Family) e, ma solo agli esordi, dal percussionista Jaime Muir, con il violinista David Cross che sostituisce il sax di Mel Collins alla seconda voce solista. Nel biennio 1973-’74 il gruppo dà alle stampe tre dischi, “Lark’s Tongues In Aspic”, “Starless And Bible Black” e, a gruppo ormai disciolto, “Red”. Sono dischi potenti, lontanissimi dal sinfonismo e dalle contaminazioni precedenti, a tratti aspri, ancora oggi modernissimi (e imitati) nel loro dispiegarsi nervoso e nel chitarrismo secco e tagliente di un Fripp lucidissimo. Imperdibili le testimonianze live di tale gruppo, per la maggior parte postume, molto superiori nel loro maggior coefficiente di disordine e improvvisazione, rispetto ai prodotti in studio. Seguono anni di silenzio. Il gruppo riappare dopo sette anni, nel 1981, con un’ennesima formazione, il risultato è lo splendido “Discipline” con un sound modernissimo, caratterizzato dal dialogo tra le chitarre di Fripp e Belew.
    Il gruppo proseguirà poi fino ai nostri giorni, nel massimo rispetto della critica, non fossilizzando mai il suono, ma anzi ponendosi sempre in una prospettiva dinamica e ispirando anche gruppi contemporanei come i Tool, i Muse e i Don Caballero.
    Simbolo del progressive stesso però non sono i Crimson ma i Genesis, il gruppo più famoso e più immediatamente identificabile con il genere nella sua accezione più romantica e favolistica. Caratteristiche del gruppo sono una solidissima struttura compositiva, una forte articolazione dei brani, le fughe tastieristiche (Tony Banks), parti chitarristiche sia in arpeggio che solistiche (Steve Hackett) di grande suggestione quasi pittorica, una voce non potentissima ma fortemente teatrale ed evocativa (come sbagliare… Peter Gabriel). Dopo un esordio ingenuo quanto promettente (“From Genesis To Revelation”, 1969) e un disco successivo molto più maturo, molto bello ma ancora fuori fuoco (“Trespass”, 1970) il gruppo inanella dal 1971 al 1974 una serie di capolavori (“Nursery Crime”, “Foxtrot”, “Selling England By The Pound” e “The Lamb Lies Down On Broadway”). In particolare quest’ultimo, un concept album nel vero senso del termine, è considerabile per la qualità della musica e per l’organicità dell’insieme, uno dei vertici, se non il vertice, del progressive tutto. “The Lamb” è disco anche sotteso, a differenza dei predecessori, da una tensione sotterranea, da un’asperità sottile, disco di epicità urbana, nasconde tra i suoi solchi un’idea di progressive già in parte diversa dagli esordi e in parte relazionabile successivamente al Gabriel solista. Dopo “The lamb”, infatti, Gabriel se ne va, sostituito a sorpresa dal batterista Phil Collins, ma è ancora Tony Banks a reggere musicalmente il gruppo e seguono dischi di ottimo livello (“A Trick Of The Tail” ma soprattutto “Wind And Wuthering” e “And Then There Were Three”), poi Collins comincia compositivamente a farsi spazio e i Genesis degli anni 80 virano decisamente verso un pop, a volte anche di qualità e di enorme successo, ma molto distante dal progressive degli esordi, che sempre più raramente e residualmente fa capolino nei loro dischi. Quindi, se ne va anche Collins, i fan sperano in un ritorno di antichi fuochi incolpando il batterista, solista di successo, della deriva commerciale, ma “Calling All Stations” (1997), con il quasi carneade Ray Wilson alla voce, non aggiunge niente al repertorio del gruppo e ne decreta invece la fine artistica e commerciale.
    Altro “totem” del progressive, nonché gruppo retrospettivamente più dilaniato dalla critica, gli Emerson Lake And Palmer nascono dalle ceneri dei Nice e hanno come figura cardine il tastierista Keith Emerson. Il gruppo propone un progressive incentrato sulle tastiere del leader, funambolico, narcistista fino al paradosso, tronfio e trionfalista, paradigmaticamente kitsch nell’ostentato riferirsi a modelli classici. La critica avrà buon gioco nell’identificare il gruppo come massima espressione degli aspetti ritenuti degenerativi del progressive stesso.
    In realtà, gli Elp sono ottimi musicisti, e in particolare Emerson è autore tutt’altro che privo di raffinatezze nel confondere rock, classica e jazz. Bastano i primi due dischi, l’omonimo e “Tarkus” (1970 e 1971) – che contengono musica in quantità tale da riempire l’intera carriera di molti gruppi contemporanei – per fare entrare il gruppo nelle massime espressioni dell’epoca. Segue poi un discutibile, quello sì, pastiche sui “quadri di un’esposizione” di Mussorsky, un disco interlocutorio (“Trilogy”) e un canto del cigno con ridondante ma bellissimo “Brain Salad Surgery” (1973), ultimo grande disco della band.
    Destino critico analogo avranno gli Yes, che arrivano un po’ tardivamente al progressive, dopo due dischi di pop paraprogressive (l’omonimo e “Time And A Word” ), con “Yes Album”, per poi proseguire con due classici del genere come “Fragile” (1971) e “Close To The Edge” (1972). Se i Genesis sono l’anima immaginifica del progressive e i King Crimson l’anima culturale e sperimentale, fatta salva la rozzezza delle semplificazioni, gli Yes, ancora più degli Elp e dei Gentle Giant, di cui parleremo, ne sono l’anima tecnica: la loro musica è, nei momenti migliori, un’affabulazione strumentale, una dialettica tra solisti eroicamente legati ai loro strumenti, un vortice di voci diverse. Tornando all’inizio della monografia, se quello dei Genesis è rock romantico e quello dei King Crimson è art rock, quello degli Yes è rock barocco. Gruppo forse un po’ freddo, è vero, ma difficile non rimanere affascinati dal lavorio incessante della chitarra di Steve Howe, dalla ritmica creativa di Chris Squire al basso e di Bill Bruford (poi, come sappiamo, nei Crimson) alla batteria, dalla retorica tastieristica di Rick Wakeman (unico rivale accreditato di Emerson) e dalla voce in falsetto di Jon Anderson.
    Nel 1973, via Bruford e dentro Alan White, esce l’ambizioso doppio (quattro brani, uno per facciata) “Tales From Topographic Oceans” (recentemente indicato da una rivista italiana come uno dei 100 dischi rock da evitare), album discusso anche all’epoca, ma che per almeno tre facciate su quattro contiene musica tra la migliore mai composta dal gruppo. Poi, nel 1974, via anche Wakeman (rientrerà successivamente, per poi riandarsene, per poi rientrare e così via) per lo svizzero Patrick Moraz (il disco è “Relayer”), poi nel 1976 l’ultimo grande disco degli Yes (“Going For The One”). In seguito, cambi continui di formazione, dischi modesti, alcuni discreti, altri sconcertanti, un fugace successo (ricordate “Owner Of A Lonely Heart”?) fino ai giorni nostri.
    Tra i grandi del progressive vengono annoverati due gruppi, diversissimi ma celeberrimi entrambi, che sono progressive, o meglio lo sono diventati, forse più per empatia culturale che per vera convinzione, forse più per concordanza di evoluzione che per scelta consapevole: i Jethro Tull e i Pink Floyd.
    I Jethro Tull nascono come gruppo di eclettico folk-blues-rock (da ricordare “Stand Up” del 1969), con “Aqualung” del 1971 si accentuano i caratteri progressivi, ma è solo con i due dischi successivi (“Thick As A Brick” del 1972 e “A Passion Play dell’anno dopo) che i Jethro Tull entrano in maniera inequivocabile nel calderone del progressive, nel periodo del suo massimo splendore. E lo fanno nel migliore dei modi: “Thick As A Brick” è un classico senza tempo, unico brano su due facciate con tastiere mai così in primo piano, riff ed eclettismo melodico a ruota libera, certi eccessi tenuti a debita distanza. Ancor meglio “A Passion Play”, per chi scrive (ma non solo) un capolavoro, molto più cupo, serioso e articolato del predecessore, è da molti ritenuto il miglior disco dei Jethro Tull (anch’ esso comunque fa parte della lista dei 100 dischi da evitare di cui sopra). Dopo il 1973, il gruppo esce parzialmente dal progressive, per lo meno nella notazione più ortodossa, produce ancora qualche album notevole (su tutti “Minstrel In The Gallery” del 1975) e molti discreti fino ai giorni nostri, producendo un corpus musicale che complessivamente ha pochi eguali nella musica rock, sia come qualità che come quantità. Tra l’altro, i Jethro Tull sono, tra i vecchi “dinosauri” del progressive, il gruppo che senza dubbio è invecchiato meglio, con più coerenza e dignità. Titolo che spetterebbe in realtà ai King Crimson, se solo i King Crimson fossero invecchiati…
    Altro iter curioso è quello dei Pink Floyd, fautori agli esordi, sia nella fase barrettiana che successiva, di una psichedelia stralunata ma molto consapevole e razionale, lontanissima dalla viscerale psichedelia californiana, ancora legata al blues e al folk, piena anche di riferimenti colti, spiazzante e sghemba, lisergica ma lucida e intellettuale. La fase psichedelica dei Pink Floyd si chiude con due capolavori, il doppio “Ummagumma” e la sottovalutata colonna sonora del film “More”. Poi, con la magniloquente suite di “Atom Hearth Mother”, il gruppo si inserisce a piano titolo nel filone del progressive; da lì “Meddle” e i successi planetari di “The Dark Side Of The Moon” (1973), “Wish You Were Here” (1975), “Animals” (1977 ) e “The Wall” (1979). Gruppo di grandissima personalità e fascino, esente da narcisismi e virtuosismi, interpreta il progressive in maniera, a ben vedere, molto più semplice di altri gruppi citati, ma associandolo a un’enorme forza evocativa, ponendosi come paradigma del progressive come musica di avanguardia e cultura popolare, come sublimazione dell’arte nella musica di consumo. Quasi tutta la musica dei Pink Floyd è pervasa, citando una frase di un loro testo, da “una quieta disperazione”, da un pessimismo cosmico ma silente e alla fine catartico nella sua sublime assenza di rabbia e tensione.
    Questi i gruppi più noti e di maggior successo commerciale, ma la grandezza del progressive si misura anche e soprattutto dall’opera di gruppi di minor visibilità e immediatezza.
    Tra tutti, per importanza, spiccano i Van Der Graaf Generator di Peter Hammill, gruppo rispettatissimo dalla critica anche dopo il ciclone punk e la new wave, che nell’age d’or del progressive produce alcune gemme di esistenzialismo musicale, teso e vibrante, tra cui spiccano “H To He, Who Am The Only One” (1971), “Pawn Hearts” (1972), per poi rigenerarsi nella seconda metà dei 70 seguendo le piste che dal progressive porteranno alla new wave, nell’ambito della quale alcuni gruppi, basti pensare ai Bauhaus, devono molto ai Van Der Graaf Generator del periodo. Il progressive di Hammill e compagni, infatti, è tra i più drammatici e intensi del periodo, lontano da ridondanze e autocompiacimenti che tanto verranno contestati successivamente al genere, lirico e profondo, risulta retrospettivamente una delle espressioni più moderne del movimento.
    Altra formazione di estremo interesse è quella dei Gentle Giant, gruppo molto tecnico composto da grandi musicisti ma soprattutto da straordinari arrangiatori, fautori di un progressive a volte miscelato al folk, di gelida freddezza e precisione algebrica nei tipici e involuti incastri strumentali e vocali. Un gioco di scatole cinesi di enorme fascino e intelligenza. Tra tutti i dischi dei Gentle Giant, consigliabili a scatola chiusa tutti i primi lavori, con particolare riferimento al secondo (“Acquaring The Taste”, 1971) e il quarto (“Octopus”, 1973 ).
    Gruppo certo non di successo travolgente ma comunque con un seguito consolidato, i Camel di Andrew Latimer e Peter Bardens entrano relativamente tardi nel progressive (l’esordio omonimo è del 1972, poi i notevoli “Mirage”, “The Snow Goose” e “Moonmadness”) e lo interpretano in maniera semplice e relativamente lineare, basando il sound sul dialogo della chitarra di Latimer con l’hammond di Bardens, producendo una musica spesso rilassata, delicata, floreale, sovrastrutturata ma senza retorica né celebrazioni, tanto che molti critici hanno avvicinato la musica del gruppo, con molte ragioni, alla cosiddetta “Scuola di Canterbury”, di cui parleremo. I Camel, tra l’altro, dopo alcuni dischi non all’altezza negli 80, negli ultimi dieci anni hanno prodotto alcuni dischi tra i migliori della loro carriera, tra tutti “Dust And Dream” del 1991
    Ma nel progressive sono tutti uomini? Quasi, però forse la miglior voce di tutto il progressive è quella di Annie Haslam, cantante dei Renaissance, decisamente il gruppo più sinfonico di tutto il prog, in senso letterale poiché spesso si fa accompagnare nei suoi brani da un’intera orchestra sinfonica, come nel suo migliore lavoro, “Sheherazade And Other Stories” (1975).
    Gruppo però tutt’altro che kitsch, come si potrebbe pensare, i Renaissance godono, nei momenti migliori, di un delizioso songwriting, molto melodico e romantico, con un uso tutto sommato calibrato dell’orchestra nell’enfatizzare le linee armoniche.
    I Renaissance, pur essendo un gruppo non certo privo di raffinatezze, rappresentano l’anima più popolarmente e direttamente romantica del progressive, l’anima più esplicita ed estroversa, rock sinfonico nel senso più letterale.
    Vorrei continuare l’excursus sui principali gruppi del progressive con un gruppo che solitamente non viene considerato, neanche dagli appassionati, come appartenente al genere e che rischia di essere ingiustamente dimenticato (e spesso lo è): i Traffic.
    Certo, con loro si parla di psichedelia, di rock, di folk, però non si commette un’eresia indicando “John Barleycorn Must Die” come un grande esempio di folk-prog, e anche nei dischi successivi (da segnalare “The Low Sparks Of High Heeled Boys” e lo splendido live “On The Road”) la calda voce e l’hammond di Steve Windwood agiscono in territori che proprio lontani dal progressive non sono.
    Ovviamente è impossibile parlare di progressive senza citare un inossidabile mito della critica, un coacervo di gruppi, costituiti da un piccolo gruppo di musicisti che si sono variamente incrociati, nati nell’area di Canterbury: la “Scuola di Canterbury”, appunto.
    Prima di tutto, esiste qualcosa, oltre all’origine geografica, che accomuna tutti questi gruppi, alcuni in effetti molto importanti, che apparentemente hanno approcci anche molto diversi al progressive e alla musica? Più di vent’anni fa sulle colonne di Rockstar il critico Giampiero Vigorito, recensendo un disco dei Caravan (per la cronaca “Back To Front”), paragonava la musica del gruppo al profumo delle camelie. Ecco una finezza e leggerezza strutturale, un vago retrogusto di cannabis molto più che lisergico, un tenersi lontano da ogni pacchianeria, pesantezza e volgarità, un humus antiretorico e antieroico, femminile, floreale, impegnato ma anche rilassato e un po’ sopra le righe: questo potrebbe essere un minimo comune denominatore di una scena che contempla gruppi molto diversi, dal rock progressivo elegante e leggiadro dei Caravan al jazz-rock dei Soft Machine.
    I Caravan sono l’anima più intelligibile e pop della scena di Canterbury e sostanzialmente il gruppo più legato al progressive nella sua accezione più comune. Esordiscono con il disco omonimo nel 1968 e forse non è capolavoro ma poco ci manca, con pezzi dominati dal volteggiante hammond di David Sinclair, il gruppo ondeggia tra romanticismo e underground, con brani melodicamente solidi e passaggi di grande respiro. Ancora meglio faranno nel 1970 con “If I Could Do It All Over Again, I’d Do All Over You” e l’anno successivo con “In The Land Of Grey And Pink”, due dischi già maturi, di stile e personalità definiti, con suite (“For Richard”, “Nine Feet Underground”) screziate da un’elegia e una liricità obliqua, complici anche il flauto di Jimmy Hastings, fratello del chitarrista Pye, e la voce di Richard Sinclair, già allora una delle più belle della scena. Poi, vari cambi di formazione, alcuni dischi ancora molto buoni (“Waterloo Lily” e “For Girls Who Grow Plomp In The Night”), quindi una lenta, seppur dignitosa, deriva verso un pop sovrastrutturato, con qualche acuto inaspettato (“Back To Front” del 1982 ).
    L’altro gruppo cardine sono i Soft Machine i cui primi due dischi (“Vol 1 e 2” del 1968 e 1969) fanno parte del progressive più per assonanza temporale e creativa che per reale intendimento, essendo due piccoli e originalissimi gioielli di psichedelia deformata, lievemente acida ma anche fredda e intellettualizzata, mitteleuropea, svagata e futurista. Con il successivo, terzo volume, doppio con un brano per facciata, si sintetizza il passato con la celeberrima “Moon In June” di Robert Wyatt con il futuro di una decisissima sterzata verzo un eccellente jazz-rock di derivazione davisiana (Miles Davis aveva appena iniziato il suo periodo elettrico con “Bitches Brew” e non stupisce affatto che tale sconvolgimento abbia trovato subito epigoni in Europa piuttosto che negli States). Tale trend dei Soft si stabilizzerà nei dischi successivi, molti dei quali di ottimo livello, in cui il jazz-rock si esprimerà mirabilmente come tensione irrisolta tra ordine e caos, tra struttura e improvvisazione. Tale virata però non convince Robert Wyatt che se ne va a formare i Matching Mole (due dischi all’attivo, entrambi del 1972, l’omonimo e migliore, e “Little Red Record”), ottimo gruppo dove però il jazz che il compositore voleva fare uscire dalla porta rientra alla fine dalla finestra, alternato a pezzi dominati dalla vocalità aliena del leader e batterista. Poi, per lui un incidente, la sedia a rotelle e un capolavoro come “Rock Bottom”.
    Legati ai Caravan e in parte derivati da essi sono gli Hatfield And The North, autori sostanzialmente di due dischi (“Hatfield And The North” del 1973 e “Rotter’s Club” del 1975), a parere di chi scrive due capolavori del Canterbury-sound e del rock tout court. Gli Hatfield sono una perfetta sintesi tra le due anime del Canterbury, quella melodica, lirica e un po’ scanzonata dei Caravan e quella più impregnata di esistenzialismo non drammatico e fortemente legata al jazz dei Soft Machine e Matching Mole. La loro musica è un mirabolante esempio di creatività ed equilibrio, complessa ed emotiva, di un eleganza irreale.
    Dalle ceneri degli Hatfiel nasceranno i National Health (da segnalare l’omonimo del 1978), decisamente orientati verso climi più jazzati.
    Del Canterbury da segnalare altri gruppi minori ma latori di musica a volte eccellente. Come non citare gli Egg, oscillanti tra classicismo e sperimentalismo, i Gilgamesch, i Soft Heap (poi Soft Head, se il nome vi ricorda qualcosa siete sulla strada giusta), i Khan.
    Da ultimo alcuni gruppi che si potrebbero definire para-canterburiani, cioè legati musicalmente in qualche modo alla scena ma geograficamnete estranei ad essa: Camel, Gong, Henry Cow. Dei primi, vicini in qualche modo ai Caravan e unici veramente progressive, abbiamo già detto. I Gong, a mio parere noti molto al di là degli effettivi meriti, nascono attorno alla figura hippie di Daevid Allen e propongono una psichedelia a volte ipnotica, spesso infantile dove al di là dell’eccentricità di facciata e di un tono un po’ sopra le righe, da sballo adolescenziale, si colgono lacune creative colmate con furbizia. Da segnalare per dovere la famosa trilogia (“Fliyng Teapot”, “Angels Egg” e “You”, quest’ultimo decisamente il migliore). Anche per i Gong, come per i Soft Machine, un prosieguo di carriera con un jazz-rock discreto dopo la salutare uscita di Allen.
    Altro discorso per gli Henry Cow, gruppo decisamente avanguardistico e a tratti ostico, nonché seminale, nello sperimentare ardite strutture di avant-jazz. Ma qui siamo veramente ai confini, e direi oltre, del progressive.
    Questi gli attori principali, i più noti e quelli a cui è legato il successo e la matrice del termine progressive. Dietro di questi pochi grandi nomi una miriade di gruppi, una parte dei quali, diciamolo, dimenticabili e a volte imitatori di imitatori, quasi sempre di chiaro insuccesso commerciale, quasi sempre autori di uno o pochi dischi. Però ci sono anche gemme nascoste. Diciamolo però fin da subito, nella vasta opera di scandaglio che specie negli ultimi anni è stata fatta di questo sottobosco, sono emerse opere anche meritevoli di miglior sorte ma nessun vero capolavoro. Insomma un “In The Court Of The Crimson King” o un “The Lamb Lies Down On Broadway ” nascosti non ci sono.
    Meritevoli di una citazione però alcuni gruppi lo sono davvero: rimanendo in Inghilterra, segnaliamo i Gracious, i Cressida, i Web, i Catapilla, i Cirkus, i Fruup, i Samurai, i Greenslade, gli Spring, i Quatermass, i Ton Ton Macoute, gli Gnidrolog, i Druid.
    All’interno del prog cosidetto minore sono poi identificabili delle sottocorrenti, come il folk-prog dei Trees, Spyro Gyra, Comus e Tudor Lodge, l’hard-prog (organo, brani complessi e chitarre tendenti all’hard) degli Steel Mill, dei T2, dei Clear Blue Sky, il prog con venature dark di Dr Z e Still Live, il jazz-rock non solo di matrice canterburyana dei Ben, dei Nucleus e di altri gruppi continentali come i francesi Zao e gli italiani Perigeo. Insomma centinaia di gruppi, di correnti, sottocorrenti e rivoli che costituiscono la nebulosa del progressive nella prima metà degli anni 70, una massa smisurata dai contorni fin troppo poco chiari se nel calderone del progressive finiscono i Renaissance assieme ad opere di franca avant-garde jazz come Septober Energy dei Centipede di Keith Tippett, oltre ai già citati Henry Cow.
    Fin qui ci siamo limitati alla scena inglese, ma il progressive ha prodotto una quantità enorme di dischi ai quattro angoli del globo, spesso con pedisseque imitazioni e clamorose ingenuità, anche con opere notevoli, di grande spessore e originalità.
    Limiteremo una breve descrizione a tre nazioni dove la produzione almeno qualitativamente è stata, a mio parere, migliore e più significativa: la Germania, la Francia e, perché no, l’Italia.
    In Germania la scena musicale nel periodo è eccezionalmente fertile, ma non per merito di un’ondata progressive. In quel periodo, infatti, si sviluppano due correnti di grande impatto e originalità, quella particolare forma di psichedelia tagliente e disillusa chiamata kraut-rock (Can, Amon Duul, Faust, Neu!) e la musica cosmica ed elettronica seminale dei Tangerine Dream e di Klaus Schulze. Sono due momenti molto importanti, vere proprie pietre angolari, basti pensare a quanto gruppi come i Sonic Youth e certo rumorismo debbano al kraut-rock e l’influenza dei Tangerine Dream e di Schulze sulla new age, sull’ambient e su tutta l’elettronica successiva, dal chill-out all’avanguardia più radicale.
    Ma accanto a queste tendenze si sviluppa anche un prog di un certo spessore, che ha esattamente le caratteristiche che ci si aspetta da gruppi tedeschi: una certa seriosità di fondo, un clima a volte lievemente decadente e letterario, un’emotività trattenuta e compressa.
    Tra i tanti esempi meritano certamente di essere citati gli Eloy, molto pinkfloydiani, i Wallenstein, i Novalis, gli Anyone Daugther e i più sperimentali Agitation Free.
    Più originale la scena francese, che ruota attorno a due grandi nomi: gli Ange e i Magma. I primi, forse un po’ sopravvalutati dalla critica di settore, sono una specie di Pfm d’oltralpe, con un po’ di tecnica in meno e molta teatralità, tipicamente francese, in più. Molti gli epigoni degli Ange (Analyse Grande Espoir ), spesso migliori dell’originale, come gli Atoll, i Pentacle, i Carpe Diem, gli Aracniod…
    Di gran lunga più importanti, direi forse uno dei gruppi più importanti del prog, sono invece i Magma, routanti attorno alla figura di Cristian Vander e fautori di una musica unica e originalissima, basata su cellule ritmiche e melodiche che a volte reiterano ossessive, con improvvise aperture epiche e corali e passaggi di raffinatissima psichedelia colta. Gruppo che unisce i Carmina Burana al jazz e alla classica, miscelando il tutto a un rock di una potenza esplosiva, i Magma rimangono uno dei fenomeni più significativi del periodo, tanto da aver creato un genere: lo zeulh, e meriterebbero una trattazione più estesa. in tale sede basti citare tra gli imprescindibili “Kontharkosz” del 1974, “Mekanik Destruktiv Kommando” dell’anno prima e “Magma Live” del 1975.
    Last but not least, la scena italiana, che si basa su tre gruppi principali e famosissimi in patria: la Pfm, il Banco e le Orme. La Pfm è decisamente il gruppo più legato al prog anglosassone (fin troppo: basta confrontare le parti chitarristiche di “La Carrozza Di Hans” e “21st Century Schiziod Man” dei King Crimson) e di conseguenza di maggior successo in patria e oltre (mitizzato il tempoaneo successo negli Stati Uniti), di grande pregio comunque i primi tre dischi (“Storia Di Un Minuto”, “Per Un Amico”, “L’Isola di Niente”). Differente la proposta del Banco, gruppo meno spettacolare ma più articolato e in qualche maniera più colto. Tra tutti, da segnalare “Darwin”, “Io Sono Nato Libero” e una bella opera di camerismo rock contemporaneo come “Di Terra”.
    Meno considerate, Le Orme partono alla fine dei 60 come un gruppo beat-pop, poi la svolta progressiva con “Collage”. La matrice pop rimane sempre comunque sullo sfondo, notevoli comunque “Uomo Di Pezza”, “Felona E Sorona” e l’ambizioso “Contrappunti”.
    Dietro questi tre gruppi, una folla di produzioni spesso scopiazzate e maldestre, con qualche piccolo gioiellino tra tanta mediocrità: tra tutti segnaliamo almeno “Forse Le Lucciole Non Si Amano Più” della Locanda Delle Fate.
    Ma la scena italiana è in realtà molto più ricca e originale. Impossibile non citare il progressive venato di jazz e sperimentazione degli Area del cantante Demetrio Stratos, il prog para-canterburiano dei Picchio Dal Pozzo, il jazz rock dei Perigeo, l’avanguardia degli Opus Avantra e dei Pierrot Lunaire, il progressive distorto, oscuro e “drogato” del Balletto Di Bronzo, gli esperimenti vocali del primo Alan Sorrenti (sulla falsariga di quelli precedenti di Tim Buckley) e quelli al limite di avanguardia aleatoria e rumorismo del primo Franco Battiato, solo marginalmente legato al genere (“Sulle Corde Di Aries”, 1973), il prog catacombale, ingenuo ma a suo modo unico degli Jacula e prima di tutti, nel 1967, un’opera unica nella scena italiana come la sintesi di psichedelia, rumorismo e sperimentazione dell’opera omonima e unica delle Stelle Di Mario Schifano, non certo un disco prog ma antesignano di un certo approccio stilistico.

    Il progressive rimane il genere principale di tutto il rock fino alla metà degli anni 70, tanto da poter essere considerato la matrice dell’espressività musicale di un intero decennio, di quella particolare aura che si avverte quando si ascolta un disco “dei Settanta”.
    Nella seconda metà degli anni 70, il genere comincia a mostrare un po’ la corda, escono ancora buoni dischi ma si comincia ad avvertire qualche segno di stagnazione.
    I King Crimson sono sciolti (riappariranno nel 1981), i Genesis senza più Peter Gabriel nel biennio 1976-1977 escono con due classici come “A Trick Of The Tail” e “Wind And Wuthering” ma già nel ’78 viene pubblicato ” …And Then There Were Three”, disco eccellente e pienamente progressivo ma anche minato dal virus della deriva pop (“Follow You Follow Me” e “Many Too Many” i singoli) che si renderà evidente nel decennio successivo; gli Yes nel ’76 licenziano l’ottimo “Going For The One”, ma nel ’78 lasciano perplessi tutti con “Tormato”, gli Elp sfornano tour mastodontici e dischi non all’altezza, i Vdgg si suicidano nel ’78 lasciando un disco di chiara impronta new wave come il doppio dal vivo “Vital”; i Jethro Tull continuano con la media di un disco all’anno, sicuramente senza infamia ma anche senza grossi picchi; molti altri gruppi arrancano o si stanno sciogliendo, in generale la produzione è di livello inferiore a solo tre-quattro anni prima. In tale contesto, esplode il fenomeno punk e contestualmente la new wave, due momenti di chiara discontinuità rispetto al passato prossimo; quasi una catarsi nihilista il punk, che durerà “l’espace di un matin”, quasi un ripiegarsi consapevole sul crollo di una illusione la new wave. Tra i due generi emergenti della fine dei 70, il successo della disco-music, l’altra faccia della medaglia del punk: stesso completo disimpegno, stessa veicolazione pulsionale, stessi intenti, stesso legame con il marketing. Quello che cambia è il target umano manipolato e la capacità dei musicisti impegnati (enorme il divario a favore della disco-music).
    Per il rock è una regressione nell’utero rassicurante delle balere anni 50 e in un ribellismo da cartolina, innocuo, cartonato, ingenuo. Il famoso ritorno ai due accordi-due del punk non è una rivoluzione, non è un ritorno al significato primigenio del rock, non è un ritorno a un’espressività musicale più vivida e sincera, quanto piuttosto il contrario: è il rassicurante ritorno a una forma già digerita e metabolizzata, è il ritorno al valore musicale relazionato agli effetti che provoca sugli ascoltatori, è una regressione alla manipolazione delle coscienze giovanili, è l’anestesia del pensiero, è un ritorno alla musica come socialità, Leviatano insaziabile divoratore di ogni arte. Il punk, a giudizio di chi scrive, è la restaurazione.
    Oltre a un calo qualitativo e al successo di altri generi, un altro fattore inevitabile quanto banale e prevedibile è più di ogni altro alla base della crisi del progressive: il cambio inevitabile delle mode, quell’oscuro e visibilissimo meccanismo che porta un’espressione umana ad avere una nascita, un apogeo e un declino.
    Ecco, nella seconda metà dei 70 il progressive è in declino. Quasi morto. Il genere si dissolve, la maggior parte dei gruppi a cavallo dei due decenni sono sciolti o hanno cambiato genere, nuovi gruppi si vedono solo nelle cantine, non c’è praticamente nulla, un deserto totale, la stampa parla di progressive solo per attaccare retrospettivamente il genere; esce ancora ottima musica, sia ben inteso, ma non più progressive. Sembrerebbe finita lì. Invece no.

    Nel 1983 appare nei negozi un disco. Si chiama “Script For A Jester Tears”. Il gruppo si chiama Marillion. Ed è un disco spudoratamente progressive, direi spudoratamente genesisiano. Tutto è progressive: la musica, i testi, il logo, il nome, la voce del cantante clamorosamente gabrieliana. Ma questo non farebbe in sé notizia. La notizia è che il disco, certo gradevolissimo ma non eccezionale, ha un certo successo di vendita in tutta Europa. I Marillion proseguiranno con alterne vicende fino ai nostri giorni, il terzo disco (una suite in due facciate e un concept) “Misplaced Childhood” sarà il loro più grande successo, ma ormai la scintilla è scoccata: dietro di loro cominciano ad apparire altri gruppi, quasi tutti di matrice Yes/Genesis: gli IQ, i Pendragon, i Twelth Night i principali; qualcosa riappare sulla stampa, gli appassionati cominciano ad avere qualche punto di riferimento in qualche fanzine, negli anni la produzione continua a crescere, nascono pure piccole etichette e negozi specializzati. Il progressive diventa un genere di nicchia, carbonaro, poco visibile ma tutt’altro che sparuto.
    Ma la musica com’è? Beh il new-prog (così verrà chiamato) per tutti gli anni 80 ha come riferimento il mainstream degli Yes e dei Genesis, con però un importante cambio nella strumentazione grazie all’avvento delle tastiere elettroniche, che danno un mood più moderno ai pezzi; poi prevale una certa semplificazione del materiale, spesso accattivante e orecchiabile ma di buon impatto espressivo e sufficientemente strutturato. Non mancano ingenuità dilettantesche e spesso un senso di precarietà, capolavori non ne escono, certo, però in mezzo a tanto prodotti mediocri si intravedono anche buoni dischi e qualche talento. Poi, agli inizi dei 90, la produzione comincia a essere enorme, escono ancora moltissimi prodotti di scarto ma comincia a esserci una maggiore differenziazione del materiale che sale qualitativamente e professionalmente, ma soprattutto succede una cosa forse imprevedibile: la scena inglese non è più la principale, anzi il new prog inglese sembra privo di vera spinta propulsiva, stagnante e un po’ noioso. Buonissime cose invece provengono dalla Scandinavia e dalla Svezia in particolare (Anekdoten, Anglagard, Landberk, Isildurs Bane i principali), dagli Usa (Echolyn), dall’Italia (Finisterre, Deus Ex Machina), persino dall’Ungheria (After Crying). I riferimenti poi non si limitano più ai Genesis (quello che verrà detto prog-sinfonico), ma si cominciano a citare i King Crimson e i Gentle Giant: non si pensi assolutamente in tutti i casi a imitazioni pedisseque (che comunque non mancano), ci sono riferimenti, certo, ma anche originalità di proposta, inventiva, intelligenza.
    Tra la fine degli anni 80 e l’inizio dei 90, il progressive risulta essere un genere, a parte la parentesi dei Marillion, di scarsa rilevanza commerciale (comunque non nulla: i dischi più in voga hanno comunque tirature calcolate in decine di migliaia di pezzi ), con seguito magari poco visibile ma consolidato e generalmente competente, ma soprattutto si ha una quantità enorme di proposte, magari mal distribuite, segno di una certa vivacità. Il progressive sembrerebbe quindi destinato a sopravvivere nella passione di vecchi nostalgici e di pochi nuovi adepti, un genere residuale, di nicchia, per quanto larga sia, ma poco o nulla influente. Ma forse no.

    Nuovo millennio

    Dalla metà degli anni 90 il termine progressive comincia sempre più a fare capolino nella stampa musicale ufficiale e generalista e tra gli appassionati di rock in generale, il genere esce un po’ dal dimenticatoio delle nostalgie e vive un piccola fase di maggiore esposizione. Vediamo alcune delle ragioni.

    – Prende piede e ha notevole successo un sottogenere del progressive: il progressive-metal, cioè l’unione di strutturazione generale dei pezzi di tipo progressive con sonorità, durezze, epicità e strumentazione tipiche del metal. In realtà, tale sottogenere non nasce affatto negli anni 90 ma ha per lo meno un antecedente importante, seppure a volte misconosciuto, negli anni 70: il gruppo canadese dei Rush, che tramite opere seminali e di notevole spessore come “2112”, “A Farewell To King”, “Hemispheres”, “Permanent Waves” e “Moving pictures” ha posto la matrice di una contaminazione tra sonorità hard e progressive ben prima del successo dei Queenryche e soprattutto dei Dream Theatre nonché di tutti gli epigoni (Simphony X, Stratovarius ecc.). Il progressive metal piace, è attaccatissimo da certa critica, ma indubbiamente ha crescente successo sia tra gli appassionati di progressive che tra gli appassionati di metal, che sono molti di più e seguono un genere bistrattato ma che non conosce tramonto. Bisognerà che un giorno qualcuno in sede critica se ne accorga.
    La produzione prog-metal è notevole, la maggior parte dei dischi non può che lasciare qualche perplessità tra i progster “old-fashion”, per via di una epicità un po’ facilona e di grana grossa, pregna di un tecnicismo muscolare un po’ banalotto e infantile, certo è comunque che almeno certi dischi dei Dream Theatre (“Awake”) e dei Queenryche (“Operation Mindcrime”) vivono di luce propria e che forse in un mondo musicale di depressi è salutare ogni tanto ascoltare anche un assolo di John Petrucci dei Dream Theatre, l’ultimo guitar-hero.

    – Dal mucchio dei gruppi progressive spunta e ha una certa risonanza (sempre in senso relativo, si intende), specie in Italia, una formazione inglese: i Porcupine Tree. Non sono migliori di tanti altri (anzi) ma mescolano con scaltrezza un progressive dilatato di stampo floydiano con impianti melodici accattivanti, orecchiabili, di buon impatto commerciale.

    – Il termine progressive viene associato a una serie di proposte musicali di avant-rock spesso facenti capo all’etichetta americana Cuneiform.
    Si tratta di gruppi (Muffins, Miriodor, Birdsong Of Mesozoic e altri), spesso originatisi nella seconda metà degli anni 70, che mescolano con estrema disinvoltura il rock con un certo jazz d’avanguardia o con la musica classica contemporanea. Si tratta di aspetti musicali marginali ma guardati e giudicati, giustamente, con estremo rispetto dalla stampa e quindi per questo in qualche modo rilevanti. Nel calderone di questo rock colto rientrano sicuramente gruppi come gli Univers Zero e gli Art Zoyd, capostipiti di quello che viene comunemente definito “rock in opposition (Rio). Discutibile se tali proposte possano a ragione essere annoverate pienamente nel genere progressive; da una parte la ricchezza e la complessità della proposta non sono certo antitetiche all’utopia del progressive, dall’altro a volte il punto di partenza non sembra essere propriamente rock quanto piuttosto ricercabile nelle altre musiche del 900.

    – Dulcis in fundo: sempre più insistentemente negli ultimi anni si è parlato di (nuovo) progressive per una serie di proposte musicali sia legate a una nuova vena drammaturgica che ha fatto capolino nel rock (Radiohead, Muse), sia legate a un certo post-rock iperstutturale (Tortoise) o psichedelico-ambientale (Sigur Ròs, Tarentel), sia al ritorno di una certa ambizione sperimentale (Cerberus Shoal), sia a nuove proposte di minimalismo epico (Godspeed You Black Emperor!). Si tratta di opere e gruppi in alcuni casi anche validi e interessanti, ma che mediamente godono di una considerazione critica francamente eccessiva. Essi, tuttavia, riscuotono grandi consensi anche tra gli appassionati di progressive, come si è visto all’inizio di questa piccola monografia. Pletorico, in tale contesto, analizzare caso per caso: il termine progressive è in generale consono per quanto riguarda gli aspetti di ambizione e di velleitarismo musicale e artistico nonché, ma non sempre, per gli aspetti lirico-drammatici e di elaborazione del materiale; meno consono appare invece il parallelo per quanto riguarda gli aspetti più propriamente formali.

    Il progressive all’inizio del millennio appare quindi diviso tra revanscismo e innovazione, tra formalismo ed evoluzione, e in una certa ottica appare come un genere tutt’altro che secondario. A meno di non considerare il rimedio (la nebulizzazione formale del genere) peggiore del male (la ghettizzazione nella gabbia di parametri musicali legati ormai al passato).

    Penso che queste righe possano servire….

    Per chi è interessato ecco una lista di dischi..
    Procol Harum: Shine on brightly (1967)
    Procol Harum: Procol Harum (1968)
    Nice: Ars longa vita brevis (1968)
    Family: Music in a doll’s house (1968)
    Colosseum: Valentyne suite (1969)
    King Crimson: In the court of the Crimson King (1969)
    King Crimson: Lizard (1970)
    King Crimson: Island (1972)
    King Crimson: Red (1974)
    Genesis: Nursery crime (1971)
    Genesis: Selling England by the pound (1973)
    Genesis: The lamb lies down on Broadway (1974)
    Emerson Lake & Palmer: Tarkus (1971)
    Emerson Lake & Palmer: Brain salad surgery (1973)
    Yes: Close to the edge (1972)
    Yes: Fragile (1972)
    Magma: Kohntarkozs (1974)
    Van Der Graaf Generator: Pawn hearts (1971)
    Gentle Giant: Octopus (1972)
    Jethro Tull: Thick as a brick (1973)
    Jethro Tull: A passion play (1973)
    Renaissance: Sheherazade and other stories (1975)
    Camel: Mirage (1974)
    Pink Floyd: Atom earth mother (1970)
    Traffic: John Barleycorn must die (1970)
    Soft Machine: 2 (1969)
    Soft Machine: 3 (1970)
    Caravan: In the land of grey and pink (1971)
    Hatfield and the north: Hatfield and the north (1974)
    Hatfield and the north: Rotter’s club (1975)
    National Health: National Health (1978)
    Gilgamesh: Another fine tune you’ve got me into (1978)
    Robert Wyatt: Rock bottom (1974)
    Egg: The polite force (1970)

    Matching Mole: Matching Mole (1972)
    Catapilla: Changes (1972)
    Cressida: Asylum (1971)
    Gracious: Gracious (1970)
    Cirkus: One (1973)
    Ton Ton Macoute: Ton Ton Macoute (1970)
    Spring: Spring (1971)
    High Tide: Sea shanties (1969)
    Curved Air: Air conditioning (1996)
    Gnidrolog: In spite of Harry’s game (1972)
    Druid: Toward the sun (1975)
    Pfm: Storia di un minuto (1972)
    Banco: Darwin (1972)
    Banco: Di terra (1978)
    Orme: Felona e Sorona (1973)
    Opus Avantra: Lord Cromwell (1975)
    Pierrot Lunaire: Gudrun (1976)
    La locanda delle fate: Forse le lucciole non si amano più (1977)
    Dedalus: Dedalus (1973)
    Giganti: Terra in bocca (1971)
    Area: Arbeit macht frei (1973)
    Perigeo: Genealogia (1974)
    Duello Madre: Duello Madre (1973)
    Picchio dal pozzo: Picchio dal pozzo (1976)
    Alan Sorrenti: Aria (1972)
    Ping Pong: Ping Pong (1973)
    Eloy: The power and the passion (Germania, 1975)
    Novalis: Sommerabend (Germania, 1976)
    Anyone’s daughter: Im blau (Germania, 1982)
    Amenophis: Amenophis (Germania, 1992)
    Ange: Au dela du delire (Francia, 1974)
    Pulsar: Halloween (Francia, 1977)
    Zao: Shekina (Francia, 1975)
    Carpe Diem: Cueille le jour (Francia, 1976)
    Cathedral: Stained glass stories (Usa, 1978)
    Happy the man: Crafty hands (Usa, 1978)
    Pavlov’s dog: Pampered menial (Usa, 1995)
    Island: Pictures (Svizzera, 1977)
    Circus: Moving on (Svizzera, 1976)
    Focus: 3 (Olanda, 1972)
    Modry Effect: Nova synteza (Repubblica ceca, 1974)
    Univers Zero: Uzed (1984)
    Art Zoyd: Phase 4 (1982)
    Muffins: Manna/Mirage (1991)
    Miriodor: Miriodor (1988
    Cartoon: Sortie (1994)
    Henry Cow: Western culture (1979)
    Henry Cow: In praise of learning (1975)
    Pfs: 279 (1990)
    U Totem: Strange attractors (1994)
    Can: Tago Mago (1971)
    Can: Future Days (1973)
    Amon Duul II: Yeti (1970)
    Faust: Faust (1971)
    Neu!: Neu!2 (1973)
    Jasun Martz: The pillory (1978
    Pendragon: The jewel (1985)
    Iq: Ever (1993)
    Twelfth Night: Fact and fiction (1982)
    Marillion: Script for a jester tears (1982)
    Marillion: Misplaced childhood (1985)
    Discipline: Unfolded like stair case (1997)
    Glass Hammer: Lex rex (2002)
    Flower Kings: Stardust we are (1997)
    Iluvatar: Children (1995)
    Ad Infinitum: Ad Infinitum (1998)
    Anglagard: Hybris (1992)
    Anekdoten: Vemod (1993)
    Landberk: One man tells another (1994)
    Isildurs Bane: Mind vol 2 (2000)
    After Crying: Deprofundis (1996)
    Porcupine Tree: The Sky moves sideways (1995)
    Echolyn: As the world (1995)
    Finisterre: In limine (1996)
    La maschera di cera: Il grande labirinto (2003)
    By Kio Ran: Parallax (1984)
    Deus Ex Machina: 5 (2002)
    Underground Railroad: Though and though (2000)
    Kada: Bucsuzas (2000)
    A Triggering Myth: Twice bitten (1993)
    Djam Karet: Reflection from the firepool (1989)
    Horizont: Portrait of a boy (1989)
    Boud Deun: The stolen bicycle (1998)
    Thinking Plague: In extremis (1998)
    Cerberus Shoal: Homb (1999)
    Finneus Gauge: More once more (1997)

    Naturalmente tutti i Dischi dei Dream Teather
    • Live at Budokan (2004)
    • Train Of Thought (2003)
    • Six Degrees Of Inner Turbulence (2002)
    • Live Scenes From New York (2001)
    • Through Her Eyes (2000) – Singolo
    • Scenes From A Memory (1999)
    • Once In A LIVEtime (1998)
    • Falling Into Infinity (1997)
    • Hollow Years (1997) – Singolo
    • A Change Of Seasons (1995)
    • Awake (1994)
    • The Silent Man (1994) – Singolo
    • Lie (1994) – Singolo
    • Live At The Marquee (1993)
    • Another Day (1992) – Singolo
    • Images And Words (1992)
    • When Dream And Day Unite (1989)

    Per Qualsiasi chiarimento chiedete ico03

    #9588
    Kurt74
    Amministratore del forum

    Ma questo non e’ un messaggio, e’ un libro ico01
    onestamente non l’ho letto, forse qualche giorno lo faro.
    Da dove lo hai preso ?

    #9597
    tourette
    Partecipante

    è un po’ sbatti leggerlo tutto (tanti minuti) però è molto interessante. devo farmi prestare qualke 45 giri dei Jethro tull e dei genesis dai miei amici.
    una sola domanda: ma i led zep e gli who fanno lo stesso genere, e se si che genere è?

    #9591
    Flow
    Partecipante

    I led Zeppelin sono i padri dell’ Heavy metal, puoi trovare molte cose in comune con tutti i gruppi della NWOBHM…come del resto gli WHO dei primi ti consiglio di ascoltare Led Zeppelin I,mentre degli Who se ti capita cè un best of molto completo si chiama My Generation….

    #9592
    Flow
    Partecipante

    X Lello…
    un pò qui un pò la un pò di mio, insomma una bella ricerca, lo sai quando mi avvicino ad un genere che non conosco cerco di informarmi il più possibile su tutto….

    #9589
    Kurt74
    Amministratore del forum

    Bravo, bravo.
    In questo mondo di superficiali, ci serve gente veramente appassionata.
    Ho notato anche che sottolinei sempre nei tuoi messaggi: “NON SONO DACCORDO MA RISPETTO LE TUE IDEE” che e’ il discorso alla base di tutto. Purtroppo il 90% dei giovani ancora non capisce queste cose.

    #9593
    Flow
    Partecipante

    SI è l’unico modo per non essere frainteso, cmq appena ci vediamo ti passo tutto il materiale prog che ho sarebbe bello fare un bel confronto….

    #9595
    Tankian
    Partecipante

    ico06
    riesumo questo topic perchè me l’ha segnalato flow.
    Ancora non l’ho letto tutto (mi ci vorranno altri 2 gg ico03 ) però intanto posso consigliare qualcosa da ascoltare.
    Pain of Salvation:
    Remedy Lane 2002
    BE 2004
    12.5 (live) a dir poco spettacolare
    Entropia 1997
    One Hour by the concrete lake 1999
    The Perfect Element pt.1 2000

    Queensryche:
    Operation MindCrime

    Opeth
    Damnation

    Poi una chicca
    Ayreon – The Human Equation 2004
    Questo è un progetto che ha visto lavorare insieme gente come Labrie, “mr Akerfeldt” e molti altri artisti facenti parte di gruppi famosi nel campo del progressive e non solo.

    #9590
    Kurt74
    Amministratore del forum

    mi e’ arrivata una comunicazione via mail che mi faceva presente che quest’articolo sul progressive e’ a cura di Michele Chiusi ed e’ gia’ stata pubblicata su un altro sito.
    Dare a Cesare quel che e’ di Cesare.

    #9594
    Flow
    Partecipante

    Io nn ho mai detto che era opera mia ho aggiunto solo i dischi dei dream a tutta la storia, poi il doc pdf che ho scaricato nn e firmato da nessuno mi scuso con l;autore e con tutti quelli che hanno creduto che fosse stata opera mia

    #9587
    Anonimo
    Ospite

    grazie 1 casino ico01

    #9596
    Tankian
    Partecipante

    riesumo questo 3ad per consigliare (soprattutto a flow) un gruppo messicano misto americano davvero eccezionale.
    Ascoltati Frances the mute dei The Mars Volta. stupendo ico14

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