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29 Febbraio 2004 alle 12:31 #1233AnonimoOspite
New York, i “ragazzi in blu” di Giuliani contro il Boss per “Amerikan skin”, una canzone per l’immigrato ucciso
La chitarra di Springsteen un’arma contro la polizia. Domani al Garden, il brano per Diallo che fu ammazzato perché scambiato per un criminale
di VITTORIO ZUCCONI
WASHINGTON – Basta un accordo di chitarra per far tremare le code di paglia. Bastano una canzone, un titolo, un grande del rock per scuotere le coscienze inquiete di quella “tolleranza zero” che comincia a stancare l’America. Sbarca a New York Bruce Springsteen, il Boss, con una canzone nuova per i suoi dieci concerti al “Garden” e scoppia subito la guerra tra chitarre e pistole. Si chiama “American Skin”, chiede se si possa ancora morire per la sola colpa di essere nati dentro la pelle sbagliata come morì quell’immigrato africano, Amadou Diallo, che i poliziotti di New York scambiarono per un criminale e uccisero con 41 proiettili.
La canzone risuona male, malissimo, nei commissariati, nelle autopattuglie, nelle strade cattive che i 28 mila poliziotti di New York devono battere e i “ragazzi in blu” dichiarano guerra a Springsteen, lo boicottano, rifiuteranno il servizio di sicurezza al Madison Square Garden, vorrebbero cacciarlo dalla loro città. E nello scontro fra parole e proiettili si sente il suono della fine di un’epoca, del mito della città stanca di essere l’OK Corral.
Eppure Springsteen era sempre stato un idolo di uomini e donne in divisa, con quella sua musica ruvida e profumata di asfalto, la sua voce da taverna, il patriottismo accanito e un po’ disperato di chi grida d’essere “Born in the USA”, nato in America con la voce arrochita. Se il sindacato degli agenti di New York arriva non soltanto a boicottarlo, ma ad accusarlo di “essere venuto al Garden per imbottrsi il portafoglio con i drammi della nostra città” è perché la polizia, qui come a Los Angeles, come in tutte le città investite dalla sbornia della “tolleranza zero” si sente sempre più abbandonata da politicanti che prima l’hanno lanciata in guerra contro i cittadini e ora cominciano a rinnegare quegli eccessi ai quali l’hanno incitata.
La canzone “American Skin” non fa nomi, ma non ce n’è bisogno: quando Springsteen canta dell’uomo che muore soltanto per “avere vissuto dentro la propria pelle americana”, sotto uno sciame di quarantuno proiettili, tutti, a New York, sanno che canta del giovanotto africano completamente incensurato, ucciso nell’androne di casa soltanto perché tirò fuori dalla tasca un portafoglio che un gruppo di agenti in borghese scambiò per un’arma, la sera del 9 febbraio 1999.
I quattro agenti, quattro uomini delle Pattuglie Anti Crimine create da Giuliani, sono stati assolti da ogni accusa e la polizia di Manhattan vuole che la vergogna di questo omicidio sia dimenticata in fretta. Esattamente il contrario di quello che il pezzo di Springsteen, e i suoi dieci concerti già tutti esauriti al Garden, faranno.
Hanno paura che le liriche della sua canzone, la passione che The Boss sa suscitare in chi lo ascolta possano sollevare la polvere e gli animi, attorno a una serie ormai molto lunga di violenze commesse sotto la bandiera di una “tolleranza zero” che spesso era soltanto intolleranza per la pelle, il colore, l’accento, l’essere “straniero”. Per l’omicidio di Diallo, per la tortura di Abner Louima, un haitiano al quale gli agenti di un commissariato si divertirono per ore a infilare manganelli nel sedere “perché tanto voi siete tutti froci”, per i 30 mila arresti all’anno che il New York Police Department e le “Unità Stradali Anticrimine” compiono contro neri e sudamericani senza altro sospetto che la “presunzione razziale di colpevolezza”, la città vive nella paura di una rivolta, come quella che squassò Los Angeles nel 1992 dopo il fermo e il pestaggio di Rodney King. E le note di Springsteen sembrano, ai poliziotti, cerini accesi buttati in un serbatoio di benzina.
Sono soprattutto la rabbia, il rancore, il senso di frustrazione e di confusione, le molle che hanno sollevato la polizia di Rudi Giuliani contro il piccolo dio del rock, improvvisamente nemico. A New York come a Los Angeles, dove un processo in corso ha sollevato la pietra sopra il verminaio della corruzione poliziesca e dei falsi arresti (73 detenuti già in carcere sono stati liberati perché gli agenti avevano “inventato” prove contro di loro) gli uomini e le donne della pubblica sicurezza sono chiamati a un’impresa impossibile: quella di prevenire, stroncare, combattere sui marciapiedi la guerra dell’ordine senza svelare lo sporco segreto che ogni politicante conosce e nessuno osa dire. Che “tolleranza zero” vuole dire “intolleranza razziale”.
Nei ghetti neri di Harlem, di East L.A., di Watts, la polizia è il nemico, perché ogni ragazzo scuro all’angolo di una strada, ogni portoricano, ogni africano dinoccolato è un sospetto. Segretamente i dipartimenti di polizia usano il “racial profiling”, gli stereotipi razzisti che fanno di ogni giovanotto nero un indiziato. Uno studio recente sulla brutalità poliziesca rivela che l’83 per cento di tutti gli arresti per “probabile causa”, per sempilice sospetto, colpiscono afro americani e persino giornalisti, professori universitari, atleti di colore confessano di avere paura, quando guidano auto di lusso lungo autostrade, perché un nero che guida un’auto di lusso è, per definizione, un sospetto. Governatori, sindaci, sceriffi eletti con la promessa di “fare pulizia” chiedono arresti, statistiche, successi da vendere agli elettori, come i generali in Vietnam chiedevano il “body count”, il conteggio dei caduti nemici, da vendere ai politici e ai giornali. Ma quando esplode lo scandalo, i politicanti- mandanti si uniscono all’indignazione. Pagano sempre i poliziotti da strada.
Ora che l’alta marea dell’economia ha ridotto il numero di crimini commessi – questa del rapporto fra disoccupazione e criminalità è la sola correlazione certa e dimostrabile in tutte le città e tutte le nazioni – il piedipiatti invocato come salvatore di ieri, diventa l’ingombrante, imbarazzante brutalizzatore di oggi. E questo spiega la collera dei “boys in blue” di New York contro Springsteen, la reazione violenta a una semplice, banale canzone.
A Los Angeles i poliziotti sono dati in pasto ai giudici, per tenere buone le masse di latinos e di neri. A New York, per ora, sono crocefissi alle chitarre di Bruce e della E Street Band, il suo gruppo. Ma il loro santo protettore, Rudi Giuliani, è malato, è, anche se guarirà, alla fine della sua carriera politica. I poliziotti hanno paura della vendetta di coloro che indossano dalla nascita l'”American Skin” sbagliata.
(11 giugno 2000)
29 Febbraio 2004 alle 16:33 #5551Kurt74Amministratore del forumTu si che hai le palle. Complimenti Bruce
29 Febbraio 2004 alle 19:08 #5552Little_StevenPartecipanteSi, quella volta fui proprio orgoglioso di essere Springsteeniano.
2 Marzo 2004 alle 19:43 #5553teen spiritPartecipanteil solito ciccio. si è un grande sto bruce anche se io ne so poco lo ammiro
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