Home › Forum › Forum nirvanaitalia.it › INTERVISTA A STEVE ALBINI X RS ITALIA
- Il topic è vuoto.
-
AutorePost
-
6 Marzo 2006 alle 11:36 #1699AnonimoOspite
Intervista di RS a Steve Albini, per chi non l’ha letta
NEL TEMPIO DI MR. INDIE
I suoi studi Electrical Audio sono una specie di paradiso della musica underground. “RS” incontra, a casa sua, Steve Albini, ovvero l’uomo che costruì il suono di “In Utero” dei Nirvana
ELECTRICAL AUDIO è il paradiso di chiunque s’aggiri nell’universo della musica indipendente. Ha sede dove Chicago finisce, le case si diradano e il nulla prende il posto della città, sulla strada ruvida che conduce verso un anonimo Nord. E’ un cubo di mattoni neri, con piccole finestre sulla facciata che sembrano sentinelle e una porta di ghisa senza targa. Entri, Sali la ripida scala di legno e l’atmosfera si capovolge, come in un film di Tim Burton: questo è il regno del friendly feelin’, della rilassatezza, del cappuccino preparato in cucina dall’inserviente che a tempo perso è un magnifico bassista. Nella sala centrale ci sono vecchi mobili di legno, vhs, tappeti consumati, gatti, il biliardo, profumo di cibo macrobiotico. Sotto ci sono due studi di registrazione tutti sostanza e poco esibizionismo, il più grande col soffitto alto e i lucernari, quello piccolo, per chi ha poco da spendere, accogliente come il fienile di Nonna Papera, con una sfilata di strumenti vintage come a ribadire che qui non ti mancherà niente e con pochi spiccioli vivrai il sogno fino in fondo. Perché nel ventre degli Electrical Audio opera Steve Albini, padrone di casa e capotecnico (detesta la qualifica “produttore”: per lui serve solo un tecnico del suono che metta su nastro ciò che una band sa fare, senza manipolare).
Albini è il guru operativo dell’indipendenza musicale, l’uomo che ha cominciato a trattare l’underground con parametri scientifici di sviluppo e sopravvivenza, spogliandolo da qualsiasi ottica del lamento. Adesso ha 43 anni e un curriculum sterminato che s’inaugura già a 16 anni, con le prime registrazioni. Nel 1980 si trasferisce a Chicago e si laurea in giornalismo. Nel 1981 comincia a lavorare come tecnico del suono. Negli stessi anni fonda i Big Black, band essenziale del postpunk americano. Nel 1986 costruisce il primo studio suo: tra le mani gli passano Pixies, PJ Harvey e i Nirvana di In Utero, ma studiatamente Albini non fa distinzioni tra i pezzi da novanta e le centinaia di band senza nome che sposano la sua idea di musica (quella che riassume nell’ammonimento apocalittico: “nessuno può capire cosa ci sia nascosto in un contratto discografico. Firmandolo bisogna avere coscienza di tuffarsi in un pozzo di merda. L’industria discografica è sfruttamento e volgarità elevati allo status di norma”).
A oggi Albini ha lavorato su più di mille album e ha ancora un suo gruppo, “informale” come dice lui, chiamato Shellac. Nel 1996 ha costruito questa fortezza dove dar forma quotidiana a una filosofia di vita applicata alla musica. Secondo la quale le porte degli Electrical Audio sono spalancate a chiunque e per una settimana di registrazioni, vitto e alloggio, con Steve Albini seduto in consolle, non si spendono più di seimila dollari, a patto di stabilire un’empatia con questa accolita di buone persone. Viene da chiedersi dove sia il trucco, viene maliziosamente da pensare che non può essere tutto così perfetto, così diverso da ciò a cui ci ha abituato la gretta America musicale, mentre qui si percepiscono solo vibrazioni positive e neppure un’oncia di sfiga. Eppure Electrical Audio non è la riserva indiana degli emarginati rock: è un presidio di un mondo consapevolmente autonomo e iperattivo. Sufficientemente denso di umanità.
“Questo fabbricato dell’Ottocento, originariamente era una stalla e la chiesa all’angolo è vera archeologia cittadina”, racconta Albini ancora intorpidito, nell’abbagliante mattina che segue la nevicata d’ordinanza delle notti di Chicago. “L’ho comprato nel 1995 e l’abbiamo adattato alle nostre necessità”. L’Italia è la seconda patria, di Albini, venuto al mondo a Missoula, nel Montana rurale, ma: “la mia famiglia viene dal Piemonte. E di quei posti devo aver mantenuto qualcosa nei tratti somatici, perché a Torino la gente mi scambia sempre per una di loro. Commovente, no? Ho capelli neri, occhi chiari, braccia lunghe: là è una fisionomia comune”. Già: Albini = di Alba ipotizziamo.Steve, esiste ancora l’underground?
“Sì. L’idea di underground è basata sulla necessità. Se vuoi fare una certa cosa e non disponi di risorse, o fai tutto da solo e t’accontenti di una esposizione limitata, o t’associ con altri nelle tue stesse condizioni. Sarà cos’ sempre. Anche quando un genere espressivo è ormai assorbito dal mainstream, c’è qualcuno che si sente emarginato, alla ricerca del modo per esprimersi. Può modificarsi il “tono” dell’underground, ma ciò non minaccia mai la sua esistenza. Ad esempio ci sono flussi diversi che si muovono all’interno dell’idea di musica. C’è chi lo fa per hobby, chi suona in un’orchestra dopolavoristica, c’è chi, come me, sente il bisogno di far parte d’una band perché la sua socialità ruota su questo. E si arriva a chi ne fa la sua vera dimensione artistica, incapace però d’incontrare riconoscimenti ufficiali. Questo è lo sterminato bacino dell’underground e il discorso non vale solo per la musica. L’underground è l’hardcore d’una forma d’arte: gente che lo fa perché sente che deve farlo”.Mai stato tentato dal mainstream?
“No, ma non per snobismo. Mi piacerebbe avere più soldi, risolvono i problemi. Ma ci sono regole a cui obbedisce il mainstream musicale con le quali non mi sono mai sentito a mio agio. La definirei una scelta politica: ho scelto di agire ai margini. L’importante è che la modulazione dell’underground col passare del tempo si evolva. Del resto non s’è mai fermato: negli anni 50, l’underground era l’avvento della cultura beat. Nei 60 era la cultura hippie e la riscoperta del folk. Nei 70 era il boom della cultura delle droghe e l’esplosione del punk. Negli 80 era il ritorno del jazz. Nei 90 l’affiorare della sperimentazione, fino alle estremizzazioni noise. Adesso la scena underground sta assumendo valenze teatrali, audaci, che vanno dalle installazioni al teatro dell’assurdo”.Come funziona la comunicazione all’interno dell’underground?
“Il fattore umano resta primario. Basterebbe andare in un posto qualsiasi per imbattersi in un gruppo di ragazzi che mette in piedi spettacoli informali nelle case. La faccenda finisce per generare un movimento: show musicali nelle case private, invece che nei club o nei teatri. E’ una potente dichiarazione d’indipendenza: non abbiamo bisogno di niente, il sistema può starsene fuori, possiamo suonare nei nostri salotti. E’ una presa di posizione politica. Non serve neppure un palco e i concerti nelle case sono un divertimento fantastico. Io ho suonato a un sacco di house party e ho ospitato concerti a casa mia: uno spasso. I Nirvana hanno cominciato così: erano solo una band che suonava in giro per le case altrui”.C’è connessione tra l’attuale situazione politica in America e lo stato delle cose nell’underground?
“Oggi negli Stati Uniti non si può parlare di politica in termini generali. Certo, per le questioni di politica estera si decide tutto a Washington. Ma il resto sono questioni locali, regionali: l’America è enorme e le cose che preoccupano gli abitanti dell’Alaska sono diverse da quelle di chi vive in Florida. Stesso discorso per l’underground. In sostanza, oggi esistono scene underground locali, ma grazie a piccole tournée hanno frequentemente la possibilità di contaminarsi tra loro”.Quindi la scena underground resta immune dagli influssi della grande politica. Per fare un nome: Gorge W. Bush.
“Prendiamo questa War on Terror, la “guerra al terrore”… Hai notato che gli americani stanno sempre facendo la guerra a qualcosa? Niente come la guerra a qualcosa ci eccita di più. Comunque, dalla War on Terror sono spuntati guai che arrivano fin qua ai margini: se oggi non hai le carte in regola per organizzare un evento musicale, te lo possono cancellare. A Chicago, ad esempio, c’è sempre stato un fascismo strisciante. E ora la voglia di controllo aumenta esponenzialmente”.Sei un veterano: come cambiano le cose della musica?
“La tecnologia digitale ha rivoluzionato la musica. Software di registrazione gratuiti, sistemi di distribuzione virtuali… Puoi mettere in giro le tue canzoni senza spendere un centesimo. C’è meno bisogno dell’industria discografica e ciò porterà più arte e meno soldi. Cresce il rapporto diretto tra produttore e consumatore, un’economia efficiente, che fa a meno di accessori come la pubblicità. Lo stesso vale per gli studi di registrazione. Quelli a cinque stelle hanno chiuso. Anch’io ho investito una montagna di soldi negli Electrical Audio, ma qui, invece di fare tre dischi l’anno affittando le sale per quattro mesi alla volta, realizzo cento dischi lavorando con band che si fermano solo due o tre giorni. E’ una scala diversa, ma funziona”.Come ricordi la destabilizzante esperienza di lavorare con i Nirvana-superstar di In Utero?
“Non ho un attaccamento romantico ai Nirvana. Penso che all’epoca del loro successo ci fossero diverse band che valevano altrettanto. Sono stato sorpreso quando sono diventati un fenomeno internazionale, perché ero convinto che tra Nirvana e le altre band non ci fossero sostanziali differenze. Ma loro sono piaciuti di più, e non bisogna farsi troppe domande al riguardo. Sono stati amati. Li hanno ascoltati, gli hanno creduto e hanno cominciato ad adorarli. La critica e l’industria hanno vivisezionato il fenomeno per afferrarne il segreto. Stronzate: c’è solo il fatto che piacevano ai ragazzi. Piacevano come sono piaciuti i Rolling Stones e qualsiasi altra band che il pubblico segue d’istinto. Si è cercato disperatamente di rifarli, di rigenerarne l’uragano emotivo. Ma per arrivarci si doveva decifrarne la meccanica dell’amore. Forse erano i vestiti? E tutti di colpo hanno cominciato a vestirsi come i Nirvana. Non funzionava. Forse era merito della produzione? E tutti andavano a farsi produrre da quel produttore. Niente. Non c’era un fattore specifico all’origine del fenomeno”.Quali sono stati i tuoi sentimenti, quando la vicenda-Nirvana si è chiusa?
“Quando la band è diventata mainstream mi sono trovato di fianco gente con cui non condividevo niente. Mi sono messo sulla difensiva, mi sono sentito spossessato, ho visto troppa avidità in circolo. La registrazione di In Utero fu normale: lavoravamo ed eravamo contenti. I guai iniziarono quando i discografici sentirono i nastri: cominciarono a insultarmi in ogni modo possibile. Non è stato piacevole, hanno messo a rischio la mia reputazione, ho sfiorato la bancarotta. Poi i clienti hanno cominciato a tornare. L’altro giorno stavo guardando la tv quando ho realizzato che il sottofondo musicale di uno spot era dei Minutemen, band fondamentale, la mia favorita in assoluto. Erano rivoluzionari e punk, incarnavano la pura ideologia indipendente. E adesso c’è lo spot di questa station wagon con sotto la loro musica. Ho avuto la precisa sensazione che una parte della mia vita si chiudesse in quel momento. E’ come se apri la porta di una stanza e vedi sangue dappertutto: non fai domande, non controlli se è secco. Chiudi E speri d’aver sognato”Tnx to Melvana
-
AutorePost
- Devi essere connesso per rispondere a questo topic.